Attualità

Marcello Dell’Utri – Una storia italiana

“Allora, ci sono un milanese e un palermitano alla facoltà di legge di Milano…”. No, non è l’inizio di una barzelletta, ma quello di una lunga amicizia. Potremmo quasi definirla “una storia italiana”.

Sapiente bibliofilo, diligente compagno di banchi alla facoltà di Legge con l’amico fidato Silvio Berlusconi, dirigente di Publitalia e fondatore di Forza Italia, per il quale ha anche ricoperto la carica di senatore. Marcello Dell’Utri, la sua non è una storia come tante. È segnata sin dall’inizio dalla sua amicizia con Silvio.

Nel 1961 Marcello Dell’Utri si trasferisce da Palermo a Milano per frequentare la facoltà di Giurisprudenza all’Università Statale. Tre anni dopo, 1964, lavora come segretario per Berlusconi, che sponsorizza il Torrescala, squadra di calcio allenata proprio da Dell’Utri.

Quasi dieci anni dopo, 1973, Marcello viene chiamato a Milano per seguire i lavori di ristrutturazione nella villa di Arcore, che nel frattempo Silvio ha acquistato dalla marchesina Annamaria Casati Stampa a un prezzo stracciato (a coordinare la transizione vi era Cesare Previti, tutore legale della ragazzina rimasta orfana, ma già all’epoca in rapporti con B.). Dell’Utri è il segretario di Berlusconi, tant’è che quest’ultimo, a sottolineare il rapporto tra i due, lo va a prendere in barca a Palermo per portarlo a Milano. Marcello, come primo atto da braccio-destro di Silvio nella nuova villa, decide per prima cosa di assumere uno stalliere. La sua scelta ricade su un certo Vittorio Mangano, il quale fu presentato a Dell’Utri da un certo Gaetano Cinà, detto Tanino, proprietario di una lavanderia a Palermo. «Io lo ricordo che accompagnava e tirava le righe del campo con il gesso per una squadra che allenavo, l’Atletich Club Bacigalupo» – dice Dell’Utri a proposito di Vittorio Mangano. Quest’ultimo, già all’epoca, poteva vantare numerosi arresti, condanne e denunce – Paolo Borsellino ricorderà in un’intervista che all’inizio degli anni ‘70 Mangano era specializzato in estorsioni alle cliniche di Palermo: o pagavi o, come intimidazione, il neo-stalliere del Cavaliere era solito far recapitare una testa di cavallo o di cane mozzata.

Mangano vive per due anni nella villa di Arcore, insieme a sua moglie, due figlie e la suocera. Durante il tempo trascorso alla corte di Silvio le sue mansioni sono ben diverse da quelle di un “normale” stalliere: porta Berlusconi al lavoro e lo va a riprendere, accompagna i figli di B. a scuola, oppure la moglie a fare shopping. Inizia, inoltre, a invitare ad Arcore alcuni suoi compaesani di Palermo: alla domanda dei giudici riguardo chi fossero questi “amici”, Dell’Utri risponderà che non ne aveva idea, in quanto «erano persone a cui era meglio non fare domande».

Tuttavia la vita continua, tranquilla, ogni tanto sparisce dell’argenteria o qualche quadro, fino all’8 dicembre del 1974, quando dopo una cena ad Arcore sparisce anche il migliore amico di Berlusconi: Luigi D’Angerio viene rapito, ma la notte di S. Ambrogio la nebbia non risparmia i sequestratori, che vanno a sbattere contro un palo della luce con la macchina, permettendo all’auto-proclamato Principe di Sant’Agata di scappare. I carabinieri indagano e scoprono che a organizzare il sequestro è stato Pietro Vernengo, membro dell’Anonima Sequestri e alleato del boss Luciano Liggio: il basista del rapimento è Vittorio Mangano. Le forze dell’ordine lo comunicano a Berlusconi, ma lo stalliere viene fatto rimanere ad Arcore per altri due anni, periodo di tempo nel quale Mangano viene arrestato due volte. Ma ogni volta uscito da S. Vittore, ritorna dall’ex Cavaliere; Dell’Utri dirà ai giudici che il motivo era la paura nutrita nei confronti del mafioso, il quale però dirà: «Questo è offensivo. Ho dovuto insistere per andarmene», ricordando poi una frase dettagli all’epoca da Fedele Confalonieri: «Se te ne vai, a Silvio dispiace».

Tuttavia, errare è umano, bisogna capirlo Dell’Utri. Un po’ di sfortuna…

Alla fine dell’ottobre del ’76 si celebra un grande compleanno a Milano: al ristorante “Le colline pistoiesi” in via Marcona, compie gli anni il boss di Catania Antonino Calderone. Alla tavolata: i fratelli Grado, Pippo Bono, Mimmo Teresi e Vittorio Mangano, accompagnato da Marcello Dell’Utri. Quest’ultimo, interrogato dai giudici che chiederanno lumi sulla sua presenza, risponderà che ci andò perché «avevo paura» di Mangano, tuttavia, tiene a precisare, «quella sera i commensali non mi furono presentati».

L’anno successivo, 1977, anche Dell’Utri lascia Arcore, in aperta discordia con Berlusconi: il primo vorrebbe che il secondo lo promuovesse dirigente in Finivest, ma niente, Silvio non vuole. Così Marcello decide di mettere le proprie competenze al servizio di un altro costruttore, Filippo Alberto Rapisarda – la cui fedina penale fa comprendere come a volte il codice penale possa essere un catalogo di opzioni.

Rapisarda promuove Dell’Utri dirigente della Bresciano Costruzioni e il fratello gemello di Marcello, Alberto, amministratore delegato della Venchi Unica. A causa della naturale, quasi mistica, forza che unisce i gemelli e che a volte li porta a fare le stesse cose pur essendo lontani, entrambi i Dell’Utri fanno, nello stesso momento, bancarotta fraudolenta. Alberto viene arrestato a Torino, Marcello viene indagato a piede libero a Milano, mentre Rapisarda, con due mandati di cattura sul groppone, decide di scappare in Venezuela, con il nome falso di “Alberto Dell’Utri”, ospite del clan Cuntrera-Caruana.

A questo punto Dell’Utri, quello a piede libero, senza lavoro e soldi, decide di andare a vivere a casa di Rapisarda – imbucarsi per lui è un po’ come per noi respirare -, dove rimarrà abusivamente, senza pagare l’affitto, per sei anni.

Arriviamo, però, al 14 febbraio 1980. La Criminalpol sta per arrestare Mangano e gli sta intercettando il telefono: lui è tutt’altro che uno stalliere, è un trafficante di droga e riciclatore di soldi nel nord Italia per conto della mafia – Paolo Borsellino lo definirà, in un’intervista rilasciata poco prima di morire, la testa di ponte di Cosa Nostra al nord.

Alle ore 15:44 parte una telefonata dall’Hotel Duca di York a Milano, dove vive Vittorio Mangano, diretta a casa Rapisarda: il destinatario è, ovviamente, Marcello Dell’Utri (il quale si mostra ben poco impaurito nei confronti del proprio interlocutore).

– Pronto.

– Buona serata, dottor Dell’Utri

– Oh, caro mister!

– Minchia, sempre occupato ‘sto telefono…

– Eh sì, per forza, perché senza ufficio questa è diventata casa, ufficio e tutte cose.

– Ah, l’appartamento lì è?

– Sì, a casa, a casa.

– Ah, allora mi dispiace averla disturbata.

– E chi mi disturba, io stavo lavorando qua. Lei dov’è?

– Sono in albergo, ci dobbiamo vedere.

– Come no? Con tanto piacere!

– Perché io ti devo parlarle di una cosa…

– Benissimo!

– Anzi, tutto un affare.

– Bene, questi sono bei discorsi…

Il secondo affare che ho da proporle per il suo cavallo [il che, letteralmente, starebbe a significare che il cavallo di Dell’Utri è in affari con Mangano, ndr]

– Davvero? Ma per questo dobbiamo trovare i piccioli [“i soldi”, in dialetto siciliano, ndr]

– E vabbè, questo è niente.

– No, no, questo è importante!

– Perché? Non ce li hai i piccioli?!

– Eh, senza piccioli non se ne canta messa…

– Ne hai tanti di soldi, non buttatevi indietro!

– No, no, non scherzo, sono veramente in condizioni di estremo bisogno.

– E vada dal suo principale Silvio!

– Eh, chill’è un santo che non suda [detto siciliano che significa “quello è tirchio”, ndr]

– Non suda?!

– Ma parola d’onore!

In seguito continueranno a parlare dell’affare e del fatto che dovranno incontrare il sopracitato Tanino Cinà.

19 aprile 1980, grande matrimonio a Londra, si sposa un palermitano, Gerolamo Fauci, detto Jimmy. Che mestiere possa fare a Londra uno che si chiama Jimmy Fauci è intuibile: è un trafficante di droga per i Cuntrera-Caruana, coordina le attività tra Regno Unito, Sicilia e Canada. Ennesima tavola, questa volta presenti Francesco Di Carlo, Bontade, Teresi, Enzerillo, i fratelli Grado e Tanino Cinà, il lavandaio di Palermo, che ha portato un ospite: Marcello Dell’Utri. Quest’ultimo confermerà la sua presenza, ma dichiarerà ai giudici: «Ma io non ero a Londra per il matrimonio di Fauci, ero lì per una mostra dei vichinghi, quando incontrai Tanino…», e, comunque, anche in quel caso, «Lo sposo non mi fu presentato».

Aveva ragione Montanelli: «Dell’Utri è un uomo molto colto, soprattutto sul fatto».

Il mese successivo al matrimonio, viene arrestato Mangano, che verrà condannato da Falcone e Borsellino a più di tredici anni. Alla base dell’arresto vi saranno, anche, i contenuti delle numerose intercettazioni, nelle quali – come Borsellino spiegherà nella medesima intervista – il giudice chiarisce che, quando i mafiosi parlavano al telefono di “cavalli” e “magliette”, erano soliti riferirsii a partite di o corrieri della droga, sottolineando, inoltre, sempre ce ne fosse bisogno, quanto possa essere difficile nonché sconveniente farsi recapitare un cavallo in albergo.

Nella metà degli anni ottanta Cosa Nostra inizia a cambiare i propri referenti politici. La DC non ha evitato il maxi-processo, quindi la mafia ha deciso che alle elezioni europee del 1987 voterà per Craxi, che nel frattempo è al centro della vita politica del Paese. Ma per votare PSI bisogna parlare con Bettino, dunque serve un canale per dettare le proprie condizioni. Come cerca la mafia di arrivare a Bettino? Attraverso Berlusconi.

Il 26 novembre 1986 esplode una bomba nella villa di B. in via Rovani. Appena arrivati i carabinieri sul posto, il proprietario di casa si sbilancia e, tratto in inganno dalle forze dell’ordine che in buona fede credono abbia appena finito di scontare la propria pena, dice che è stato Mangano. A orecchio, lo ha riconosciuto dal botto.

A mezzanotte e un quarto, Silvio telefona a Marcello (ormai riassunto, presidente di Publitalia e numero tre del gruppo Fininvest dopo B. e Confalonieri) per capire se ha fatto bene a parlare di Mangano con i carabinieri:

– Pronto?

– Pronto!

– Marcello?!

– Eccomi!

– Allora, è Vittorio Mangano!

– Oh, che succede?

– …che ha messo la bomba!

– Non mi dire!

– Sì.

– E come si sa?

– Beh, da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza.

– Oh.

– È fuori!

– Oh, è fuori?

– Sì, è fuori.

– Ah, non lo sapevo neanche…

– Questa cosa qui, da come è stata fatta, con un chilo di polvere nera…

– Ah.

– …una cosa rozzissima, ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto.

– Ah.

– È stata fatta solo sulla cancellata esterna. Ecco, secondo me è come una rich… Un altro avrebbe mandato una lettera o farebbe una telefonata, lui ha messo la bomba! […] Io purtroppo stasera sono stato interrogato dai carabinieri. Purtroppo mi hanno portato loro […] sul fatto di Vittorio Mangano e gli ho dovuti avvisare: “Sì, è vero, era là [ad Arcore, ndr]”. Gli ho raccontato tutta la storia, che loro sapevano benissimo per altro.

– Eh, si capisce.

– Loro c’erano arrivati prima di me.

– Sì, sì, lo sanno benissimo, sì, sì

– Ecco, secondo me, è stato lui.

– Sì, sì, sì.

– Perché scusami, tu spiegami perché uno debba mettere una bomba, […] poi fatta proprio rudimentale, con un chilo di polvere nera […], ma poi fatta con molto rispetto, perché mi ha incrinato solo la parte inferiore della cancellata, un danno da duecentomila lire, quindi anche una cosa rispettosa e affettuosa.

I due parlano anche di un’altra bomba che Mangano mise a casa Berlusconi, nel 1975, quando lo stalliere viveva ad Arcore, a libro paga di Silvio. Quest’ultimo lascia poi il telefono a Confalonieri, che continua a parlare con Dell’Utri a proposito di Mangano e della bomba del ‘75:

– Non è uomo di fantasia – dice Confalonieri.

– Esatto, proprio si ripete.

– Eh, ha cominciato a dieci anni a fare così, adesso ne ha quarantasei.

– Sì, poi è anche un tentativo timido, in effetti…

– Sì, sì.

– Solo per dire, “sono qui!” [ride] […]

– Come la lettera dell’altra volta, con quella croce nera, ti ricordi?

– Sì, mi ricordo.

Continua Dell’Utri con Confalonieri, fino a quando il telefono non torna a Berlusconi:

– Insomma, secondo me è stato lui. Poi un chilo di polvere nera è proprio il minimo se ci pensi – dice Silvio.

– Sì, cioè, proprio come dire: “Ti faccio sentire!”, “Sono qui, presente!”

– Sì, come uno che manda una raccomandata: “Caro dottore…”, lui ha messo una bomba [ride].

– Perché non sa scrivere! [ride].

– Così è la vita! Stamattina l’ho detto anche ai carabinieri…

– Eh? – dice Dell’Utri preoccupato

Gli ho detto: “Beh, sì, in teoria se Mangano mi telefonava io trenta milioni glieli davo…”. Quelli erano scandalizzatissimi: “Come trenta milioni? Come glieli dà? Lei non glieli deve dare, che poi noi lo arrestiamo”. Dico: “Ma su, per trenta milioni!” [ride].

– Madonna!

I due ridono, la prendono talmente bene che il giorno dopo Berlusconi, sempre al telefono con Dell’Utri, gli dice: «Anzi, mi dispiacerebbe se i carabinieri adesso da questa roba qui, da un segnale acustico, gli fanno una limitazione della libertà personale». D’altronde, dove finiremmo se la polizia arrestasse tutti quelli che mettono bombe…

Il giallo, tuttavia, non lo risolvono i carabinieri, ma proprio Dell’Utri. Già, perché non è stato Mangano, il quale sta scontando tredici anni a Lucciardone; il braccio destro di B, lo scopre nientemeno che chiamando un proprietario di una lavanderia a Palermo, uno a caso: Tanino Cinà.

Quest’ultimo, che fortunatamente non è a nessuna mostra sui vichinghi, da Palermo arriva a Milano per parlare con l’amico Marcello e, appena sceso dall’aereo, lo chiama a casa – a rispondere è un bimbo, il figlio di Dell’Utri:

– Pronto?

– Sono io, non mi riconosci?

– No, chi sei?

– Dai, dai, sforzati che mi riconosci…

– [pensa] … Tanino!

Il più popolare lavandaio palermitano, famoso a grandi e piccini, va dunque a casa di Marcello e, una volta finito il colloquio tra i due, questi telefona a Silvio:

– Silvio, sono Marcello.

– Oh, ciao Marcello, che c’è?

– Eh, dunque, stamattina ho parlato con quello lì, ho visto Tanino.

– Oh!

– È qui a Milano.

– Uh!

– E dice che è da escludere quell’ipotesi [l’ipotesi che sia stato Mangano, ndr]

– Oh, sì?

– Eh sì, perché è ancora dentro.

– Uh…

– Non è fuori, hai capito?

– Ho capito.

– Tanino mi ha detto che è assolutamente, ma proprio da escludere categoricamente. Comunque, poi ti parlerò di persona.

Chi fu il colpevole lo abbiamo saputo solo nella metà degli anni novanta, quando sgominato il clan Santa Paola a Catania, i collaboratori confessarono, tra le altre, la bomba del ’86 a casa Berlusconi.

Questi sono solo alcuni dei momenti chiave della vita di Dell’Utri; episodi forse buffi, a tratti, ma sicuramente gravi ed inquietanti. Fino all’epilogo di una parte della storia… Di questa, per lo meno.

Il 9 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva la sentenza d’appello bis e ha condannato in via definitiva Marcello Dell’Utri a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il braccio destro di Berlusconi, senatore della Repubblica, nonché co-fondatore di Forza Italia viene condannato per aver commesso il reato «per un lasso di tempo assai lungo», «espressivo di particolare pericolosità sociale». Marcello Dell’Utri «ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione». La prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Maria Cristina Siotto, scrive che tale “contributo causale determinante” è stato fornito da Dell’Utri “assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974” e andato avanti “senza interruzioni” fino al 1992.

Viene inoltre inopinatamente riscontrato anche «il tema dell’assunzione – per il tramite di Dell’Utri – di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa nostra» e «il tema della non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo, essendosi posto anche come garante del risultato». Nelle 146 pagine di motivazioni, la suprema Corte parla «senza possibilità di valide alternative di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri che, di quella assunzione, è stato l’artefice grazie anche all’impegno specifico profuso da Cinà», sottolineando «la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro dall’imputato a Cinà, indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione» all’accordo. «Il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5».

 

Per approfondire
Sentenza integrale: http://www.agoravox.it/Sentenza-Dell-Utri-il-testo.html
"Intoccabili" - Saverio Lodato, Marco Travaglio
"L'amico degli amici" - Peter Gomez, Marco Travaglio
"L'odore dei soldi" - Marco Travaglio, Elio Veltri
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/29/mangano-e-il-cavallo-dopo-la-condanna-dellutri-continua-a-mentire/33657/
http://youtu.be/pFW-Nps0fjE

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