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Medea ha perso il centro: intervista a Rossella Raimondi

Medea ha perso il centro è uno spettacolo scritto e interpretato da Rossella Raimondi, andato in scena dal 19 al 22 aprile presso il Teatro della Contraddizione. La storia è quella di un’attrice i cui sogni di gloria si scontrano con una realtà che non risponde ai piani: si trova a vivere in un contesto di case popolari nella periferia di Milano da dove attende la fatidica chiamata dal Centro (la piccionaia del Piccolo) che le cambierà la vita. Sentirà, invece, di perdere pian piano la sua luce, la speranza di essere il centro. Rossella Raimondi racconta per Birdmen i retroscena del suo spettacolo.

D: In diversi momenti il pubblico ha partecipato attivamente allo spettacolo, sia compilando dei foglietti lasciati sulle sedie, sia intervenendo in scena con vere e proprie azioni. Qual è lo scopo di questa scelta?

R: La partecipazione del pubblico è fondamentale nello spettacolo. Come pubblico, avete fatto quello che vi ho chiesto, in parte perché avete creduto alla mia disperazione. Questo è il modo in cui la gente viene avvicinata ad alcune ideologie: per disperazione, fascinazione o credendo nelle promesse, le persone si ritrovano in una situazione che a poco a poco diventa la loro situazione. È un po’ quello che è successo col nazismo: è il modo in cui la gente viene utilizzata. Quello di stasera è stato un gioco che mostra come le persone possono essere ingannate.

D: Il coinvolgimento del pubblico è una dinamica drammaturgica che manterrai o potrebbe essere abbandonata in successive rivisitazioni dello spettacolo?

R: Facendo io teatro partecipato, con Il Teatro degli Incontri, quella del coinvolgimento del pubblico è un’idea che voglio mantenere. Se lo spettacolo dovesse arrivare in uno spazio teatrale più “classico” l’idea resterebbe sempre quella di riuscire a coinvolgerlo, anche solo dalla poltrona. Rimarrebbero comunque i foglietti su cui scrivere, lasciati sulle poltrone o nel foyer .Quando era ancora in fase embrionale e durava una ventina di minuti, sono stata in Triennale con i cartelli che aprono lo spettacolo e ho raccolto ciò che il pubblico scriveva.

D: Dunque si tratta di un progetto a cui stai lavorando da molto tempo. Quando è iniziato il lavoro e in quale fase si trova lo spettacolo allo stato attuale?

R: Il progetto dura da un anno e mezzo, e per un anno e mezzo è durato una ventina di minuti. La versione che sto portando in scena adesso ho preso a lavorarla da un mese. Inizialmente era di un quarto d’ora, ora è quasi ultimata ma, soprattutto nel finale, deve essere rifinita.

D: Quello al nazismo e alla xenofobia è un riferimento che emerge con chiarezza nello spettacolo. Di quali fonti ti sei servita per costruire la drammaturgia?

R: Ho utilizzato Signor Malaussène di Pennac, da cui ho preso intere frasi. Ogni frase è una pietra. Pennac mi ha dato una visione della città, della casa popolare. Poi c’è il Mein Kampf, nell’edizione analizzata da Vincenzo Pinto. E la Medea: di Euripide, di Alvaro, e Le voci di Medea di Wolf. Ho studiato Medea da diversi punti di vista: la Medea straniera, la Medea innamorata, la Medea in una versione meno carnefice. La ricerca bibliografica è indispensabile: i testi sono fondamentali per chi vuole scrivere.

D: Perché proprio Medea? Mi spiego meglio: per trattare del tema della xenofobia e della perdita d’identità si sarebbe potuto scegliere anche un altro soggetto, senza inficiare la resa. Perché questa scelta?

R: La genesi di questa scelta risale ad un lavoro fatto con il Teatro degli Incontri sulla Medea. Siamo un gruppo di teatro di cittadinanza che parte dai classici e va ad incontrare la città fragile, le comunità. Portiamo il testo nelle comunità di riferimento: rifugiati politici, case della carità, clochard… e riscriviamo il testo insieme. Per esempio un anno è stata la volta dell’Antigone con i rifugiati politici: io ho scritto la mia Antigone e loro hanno dato la loro versione. Il tutto è confluito in atti collettivi performativi. E Medea è nata così, l’abbiamo smembrata: io ho preso la Medea straniera, la Medea che viene confinata fuori dalle mura della città greca e viene trattata come un’estranea, ripudiata da Giasone. È presente anche l’amore folle di Medea con Giasone, che qui è quello per uno stendibiancheria. Questo è il fulcro.

D: Sul palco sei sola con uno stendibiancheria: un oggetto che ti accompagna per tutto lo spettacolo. Come è nata l’idea di impiegare Stendy?

R: Mi sono trovata con questo stendino bianco e come sia venuto fuori non lo so. Nello spettacolo rappresenta la pulizia etnica, insieme ad altri prodotti igienizzanti che nomino: manifesta il bisogno continuo di pulire. Io faccio tutto con lui, diventa qualsiasi cosa: diventa i personaggi, il padre dei miei figli. Ha un ruolo drammaturgico fondamentale.

D: Le fonti letterarie da cui hai attinto sono molte, ma la drammaturgia è stata costruita anche su elementi autobiografici.

R: C’è da dire che i personaggi che io descrivo esistono praticamente tutti. Io racconto di un palazzo dove vivo, l’unica cosa che è stata modificata è l’indirizzo. I personaggi che interpreto sono quelli che incontro tutti i giorni. Naturalmente il palazzo è molto più vivibile di come lo rappresento, ma ho visto delle scene che non credo di raccontare. Si trova il modo di vivere bene: nello spettacolo cerco di uscirne, ma alla fine ritorno perché non mi voglio allontanare da lì, mi piace.

D: Il palazzo a cui ti riferisci nello spettacolo è un complesso di case popolari. Hai mai avuto modo di confrontarti teatralmente con questo tipo di realtà urbana?

R: Abbiamo lavorato come Teatro degli Incontri nelle case che ci sono in via Fabio Filzi, che non sono una realtà molto avvicinabile: sono case in cui non entra nemmeno la polizia. Ma con il Teatro siamo riusciti ad entrare e ho fatto lì la Medea con lo stendino, 3-4 personaggi in venti minuti.

D: Abbiamo parlato del dato autobiografico, che emerge sia nei personaggi secondari che vai ad impersonare, ma soprattutto nella protagonista: Medea-Rossella, un’attrice come te.

R: La Medea sono io. Medea in Grecia vuole essere chiamata dal re, lei manda i vestiti che uccideranno la figlia del re. Nel finale, quello che chiamo Creonte Le Gendame viene a portarmi via, e lì recito una bellissima poesia di Amleto Pazienza (pseudonimo di Davide del Grosso) sulla condizione dello straniero. Ho scelto di concludere con un momento poetico perché, come anche Heidegger sosteneva, quando vogliamo comunicare qualcosa di profondo dobbiamo ricorrere alla poesia, che non è necessariamente parola.

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