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Funeral parade of roses, ovvero l’Edipo Re

FUNERAL PARADE OF ROSES (1968), DI TOSHIO MATSUMOTOCapo saldo del Nuovo Cinema giapponese, Bara no sōretsu – Funeral parade of roses, film di Toshio Matsumoto, è un lungometraggio del 1969. L’autore rivisita “in chiave giapponese” la tragedia Edipo Re, di Sofocle. Quel che ci colpisce di questa reinterpratazione del freudiano complesso è la destrutturazione temporale della narrazione e della meta-narrazione. Spieghiamo velcomente le vicende: Eddie è un travestito in competizione con Leda, madame del Genet Bar (un locale per gay e travestiti), in lotta con lei per la supremazia sul locale e su un comune amante. La narrazione inizia in medias res: veniamo subito introdotti, dopo una “stilistica interpretazione del coito”, nella macchina in cui stazionano i due amanti, Eddie e Gonta, che, sfrecciando per le strade della città, intravedono Leda.

Queste ed altre sequenze torneranno più volte nel film, arricchite da nuovFUNERAL PARADE OF ROSES (1968), DI TOSHIO MATSUMOTO(1)i particolari svelati gradualmente, assumendo così nuova significazione all’interno della struttura narrativa. Flash di una bruatale uccisione riecheggeranno più volte, chiarificando il loro significato solo nelle battute finali. Nei “tempi morti” vengono utilizzati dei giochi stilistici e meta-narrativi: una troupe di studenti, protagonista anch’essa del film, in mezzo a giochi erotici e all’uso di sostanze stupefacenti, sta realizzando un film-documentario su omossesualità, travestiti ed uso di droghe. Gli stessi autori dell’intrigo amoroso si prestano a interviste, in cui si presentano consci del proprio ruolo di attori.

Riflessioni sull’omessusualità, sulla vita e sulla psicologia di un travestito (ancor prima che questi temi fossero in voga) si alternano, insieme a riflessioni estetiche e politiche, con quelle sugli stupefacenti. Tra siparietti in fast-motion, si pensi alla cat-fight  tra Leda e Eddie, scene psichedimg28eliche e momenti erotici, si costruisce un mondo, frammentato e disordinato, che orbita intorno alla sottile trama. Un commento a parte merita la fotografia: sempre “sinergica” e d’impatto, anche se non raggiunge le vette stilistiche di uno Yoshida, ad esempio. La scelta di riprendere i corpi, nella loro ambiguità, negli strofinii delicati, tipici del modo di rappresentare il sesso nel giappone cinematografico (si pensi ad esempio a Wakamatsu), si coniuga con la stilistica che gioca contro la censura giapponese (ricordiamo che in Giappone è ancora vietato rappresentare i genitali e i peli pubici in qualsiasi media), deframmentando i corpi, come solo Godard in Une femme mariée (1964) era riuscito a fare.

Tra documentario e “tragedia ribaltata”, vi lascio scoprire – con la sua visione, che consiglio caldamente – il perché quest’opera, fortemente provocatoria, rappresenta un istrionico ed eclettico lavoro del Nuovo Cinema giapponese.

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