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“Pietà” di Kim Ki-duk

Dopo i tre consueti appuntamenti con il cineforum di Sussurri e Grida, giovedì sera, a Radio Aut, è stato il turno di Birdmen. Per intrattenere il pubblico del circolo il nostro Carlo ha pensato di proporre la visione di Pietà, del regista sudcoreano Kim Ki-duk, pellicola vincitrice del Leone d’oro alla 69ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Diciottesimo dei ventidue film diretti del regista – produzione incredibilmente prolifica, se si considera che il suo esordio risale al 1996 – quest’opera è stata vista dalla critica come il ritorno alla sua grandezza originaria, dopo l’attraversamento di una profonda crisi spirituale. Non a caso, infatti, è possibile individuare espliciti riferimenti alla religione cristiana, connessi a tematiche più spiccatamente “orientali” o addirittura risalenti alla tragedia greca.
Prima di tutto, però, bisogna premettere che chi scrive è – o era, se consideriamo la recente esperienza come un possibile punto di partenza a riguardo – praticamente digiuna in materia di film orientali (sto provando a pensare a qualche titolo ma, ahimè, niente). Noncurante delle battutine sulla “leggerezza” di tale film (ma senza essermi preoccupata di spiare la trama), ingannata dalla durata irrisoria dello stesso (“solo” 104 minuti, rispetto ad altri lungometraggi proiettati in precedenza, ben più degni di questo nome) ho deciso che era giunto il momento di ampliare i miei orizzonti. Che dire, un inizio col botto!
Un pubblico nutrito (come sempre, del resto) ha assistito, come me, col fiato sospeso alle vicende che si andavano articolando sullo schermo, mano a mano che la storia prendeva forma. Se avete sentito commenti sdegnati, imprecazioni (o versi inarticolati di vario tipo) provenienti dal tavolo in fondo, sì: ero io. A dispetto di quanto potrebbe sembrare dalle mie reazioni, non posso dire che il film non mi sia piaciuto. Per usare una parola sopravvalutata, definirei questo film “forte”. Infatti, nonostante l’assenza di scene esplicitamente cruente, è uno strato spesso e velenoso di odio che permea l’aria che respirano i personaggi, e noi con loro. È quasi impossibile trovare un barlume di positività nel vortice di emozioni e squilibri che affliggono i personaggi (agonizzanti) sullo schermo.
Una delle prime sensazioni che si percepiscono è la solitudine, quella del protagonista, il trentenne orfano Kang-do, che lavora per conto di uno strozzino, vivendo nello squallore di un sobborgo di Seul. Poi, la paura: quella dei debitori consapevoli di non poter pagare e di ciò che questo comporterà; paura sì, accompagnata dal dolce sogno di potersi vendicare, un giorno. Ancora, il dolore: quello fisico inflitto da Kang-do e quello psicologico provato da lui stesso, conscio, in fondo, di vivere una vita vuota e “malvagia”. Percepiamo sulla pelle l’impotenza e la bassezza di quelle figure che popolano le inquadrature, vittime sbiadite dei debiti quanto colpevoli di essere caduti in prenda all’illusione di ottenere del denaro facile. Unica loro rivalsa è la morte, il più alto prezzo da pagare.
A fine proiezione abbiamo discusso a lungo riguardo il significato di quanto visto, partendo innanzitutto dal titolo: Pietà, ma di chi? Dove trova posto la pietà in questo scenario desolato, popolato da falsi affetti e biechi sentimenti? A questo proposito è fondamentale ricordare il background artistico di Kim Ki-duk (per un periodo della sua vita si mantiene a Parigi facendo il pittore) e non secondario è il fatto che il regista abbia mantenuto il termine italiano per designare il titolo della propria opera. Detto ciò, automatico risulta il collegamento con la Pietà per antonomasia per noi italiani, reificata nella scultura di Michelangelo. Pietà, dunque, di una madre (come la Madonna nella statua) che soffre per il figlio morto. Ma allora, quale madre e, soprattutto quale figlio? Chi riesce a perdonare chi, chi offre veramente l’altra guancia?
Molto stimolante il fatto che, parlandone, molte idee e opinioni emerse nel corso del dibattito fossero diverse tra loro. Se, da un lato, sembrerebbe risultare innegabile ed esplicita la profonda critica contro il capitalismo – “Cosa sono i soldi? L’inizio e la fine di tutte le cose” -, a mio parere il regista ha pensato di mettere lo spettatore in una posizione attiva, ci abbia, cioè, imposto di riflettere su quello che ci ha voluto mostrare, lasciando spazio a varie chiavi di lettura. Giustamente, pur trattandosi di un regista che ha avuto profondi contatti con l’Occidente, abbiamo concordato sul fatto che sarebbe sbagliato appiccicare etichette troppo precise, categorizzare cioè le tematiche affrontate e sviluppate avvalendosi unicamente del criterio “occidentale”.
Per chi fosse interessato ad approfondire queste tematiche, vi invito giovedì prossimo a seguire il nuovo ciclo di Sussurri e Grida di Carlotta che verterà, a fagiolo, sulla figura di un regista orientale: Wong Kar-wai.
Alla prossima, buona settimana!

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