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Vent’anni di Trainspotting

“Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici; scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita. Scegliete un mutuo a interessi fissi, scegliete una prima casa, scegliete gli amici. […] Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete un futuro, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni, chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”

 Un inseguimento sulle note di Lust for life di Iggy Pop e le prime provocanti parole fuori campo di uno dei protagonisti aprono Trainspotting (1996), film basato sull’omonimo romanzo di Irvine Welsh (1993) e diretto da Danny Boyle (lo ricordiamo anche  per il pluripremiato The Millionaire e il recente Steve Jobs), che divenne un cult generazionale tanto da incassare 48 milioni di sterline solo nel Regno Unito, a dispetto di un ridotto budget di realizzazione di solo 1,5 milioni di sterline e poco più di sette settimane di girato.

 Siamo sul finire degli anni ottanta, precisamente ad Edimburgo e a muovere le fila delle vicende di un gruppo di ragazzi è l’eroina. In una società borghese  dominata e divorata senza accorgersi dal consumismo, Mark Renton (Ewan McGregor) e i suoi amici preferiscono non omologarsi ai canoni sociali e, se vent’anni prima in Arancia meccanica i drughi sceglievano la violenza, loro scelgono di “non scegliere la vita”.

Film accostato dalla critica proprio alla pellicola di Kubrick per la tematica dell’integrazione sociale (le scritte sulle pareti della discoteca Volcano non possono peraltro non ricordare il Korova Milkbar di Arancia Meccanica), ma anche contestato in un primo momento per sembrare troppo accondiscendente nei confronti della droga più in voga in quegli anni, paragonata addirittura ad “un orgasmo moltiplicato per 1000 volte”; fu poi rivalutato fino ad essere considerato nel 1999 uno dei 100 migliori film dal British Film Institute.

La tossicodipendenza è qui trattata mostrando la situazione per quella che è, dagli occhi dell’anti-eroe Renton, senza abbandonarsi a moralismi. Dopo le dovute presentazioni iniziali che ci fanno conoscere il resto della compagnia, composta dallo svampito Spud (Ewen Bremner), il platinato Sick Boy, esperto di cultura pop e Sean Connery, tanto da sembrare un personaggio di Tarantino (Jonny Lee Miller), il violento Begbie (Robert Carlyle) e il bravo ragazzo Tommy (Kevin McKidd), ecco mostrata la verità tutt’altro che fantastica che li circonda, e se le parole del qui giovanissimo McGregor suonano quasi come uno spot pubblicitario dell’eroina, subito il velo di Maya è scoperto su tutta la bruttura che quella non-vita comporta. Colpisce fin dall’inizio infatti l’appartamento corroso dalla muffa in cui gli amici si ritrovano per drogarsi e, ancor di più, a colpire è la loro condizione: ai margini della società, schiavi della droga, immersi nel degrado e al tempo stesso degradati come i muri che li circondano, vivono in completa catabasi sdraiati a terra, sempre incoscienti al punto di non curarsi della presenza della neonata di una loro amica (uno di loro ne è il padre), fino a lasciarla morire – seppur involontariamente – e avere come unica reazione l’istinto di abbandonarsi ancora una volta all’eroina.

Scene forti e realistiche come l’overdose di Renton – costruita con un piano sequenza dal suo punto di vista, in modo da portare lo spettatore a vivere il suo trip mentale “a tappeto” con lui – si alternano a momenti di black humor e a situazioni grottesche al limite dell’improbabile in cui i personaggi, ben caratterizzati, ci strappano qualche sorriso: iconica su tutte la scena nel “peggior bagno della Scozia” che vede il protagonista, accompagnato da Deep blue day di Brian Eno, immergersi con la stessa leggiadria di un sub in putridissimo gabinetto per recuperare delle supposte di oppio.

 Il titolo “Trainspotting”, apparentemente tratto dall’abitudine dei ragazzi di fermarsi vicino ai binari a guardare il passaggio dei treni, è in realtà molto di più: allegoria allo stesso tempo di quella non-vita che ti porta ad essere un perdente e a non afferrare le occasioni che ti si presentano (il disastroso colloquio di lavoro di Spud ne è un esempio) ma anche critica della stessa società del tempo troppo spinta dalla voglia di collezionare cose che alla fine dei conti non hanno un vero valore, proprio come i trainspotter passano il loro tempo collezionando i numeri delle locomotive in transito. Le note di Born Slippy degli Underworld (la musica di sottofondo è un altro punto a favore del film, mai banale e a completamento delle scene) e il cambio di rotta di Mark chiudono il film: Mark fa un passo indietro e sceglie “la vita” che critica all’inizio, migliore della droga certamente, ma non perfetta.

Sarà una scelta definitiva? Quale sorte sarà toccata ai suoi compagni? Lo scopriremo dopo 21 anni, a marzo esattamente, quando uscirà nelle sale italiane T2: Trainspotting, sempre diretto da Danny Boyle e tratto da Porno, il romanzo di Irvine Welsh, dove tutto il cast è pronto a ritornare sulla scena.

Chiara Turco

Chiara Turco nasce a Pavia il 23 agosto 1993. Frequenta il liceo scientifico "C. Golgi" di Broni (PV), diplomandosi nel 2012. Nel febbraio 2018 consegue la laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Pavia. Appassionata di Cinema, diventa redattrice di Birdmen nel dicembre 2016, per poi successivamente occuparsi anche dell'ambito social network.

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