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Venerdì profano #30 – Tre due ONU zero

Se il bambin Gesù si fosse trovato in quella stalla, invece che duemila anni fa, settimana questa, probabilmente avrebbe potuto fare a meno sia del bue che dell’asinello. Il termometro che misura la temperatura delle relazioni internazionali, infatti, in settimana ha toccato vette che non si raggiungevano da tempo: la questione mediorientale si è prepotentemente riaccesa. E Stati Uniti e Israele sono più che mai, diplomaticamente parlando, ai ferri corti.
Venerdì scorso, complice l’astensione americana, è stata approvata in sede ONU la Risoluzione 2334, che definisce illegali le colonie israeliane in costruzione nei territori di Gerusalemme Est: «Israele deve cessare immediatamente e completamente tutte le attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est».
La reazione del presidente israeliano Benjamin Netanyahu non si è fatta attendere: immediatamente è stata annunciata la costruzione di 618 nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme Est (anche se, Mercoledì 28, pare sia arrivato al Comitato di pianificazione e costruzione della Municipalità di Gerusalemme uno “stop”, proprio per volere di Netanyahu stesso).
La questione è particolarmente complessa e nella stessa s’intrecciano dinamiche politiche, religiose, economiche, sociali, storiche e geopolitiche più che centenarie e spesso tra loro contraddittorie. Da una parte, tra gli innumerevoli risolti, e al di là d’ogni dietrologia, Israele deve far fronte alla crescente emergenza abitativa, essendo Gerusalemme la città con la maggior concentrazione di abitanti (dei 430mila cittadini israeliani in Cisgiordania, 200mila vivono a Gerusalemme Est) del paese; dall’altra, la manovra israeliana sarebbe da ricondurre (tra le altre cose) a un tentativo di legittimazione in prospettiva di una futura presentazione alla Corte Penale Internazionale di una fitta documentazione riportante innumerevoli casi di violazione dei diritti umani palestinesi perpetrati da parte di Israele (punizioni collettive, distruzione di case palestinesi, espropri illeciti di terreni, deviazione dei corsi d’acqua, interdizione della libera circolazione di persone, ecc.).
Dall’altro lato ancora (e non solo per questioni geografiche) vi sono poi gli Stati Uniti del Presidente uscente Barack Obama e del Segretario di Stato John Kerry. Per quest’ultimo «la soluzione a due stati è in pericolo» in quanto «lo status quo punta a uno stato, a una occupazione perpetua». «Le decisioni sugli insediamenti da parte di Israele sono guidati dall’ideologia e non sono correlati alla sicurezza del paese»: «se la scelta è uno stato, Israele non può essere ebraico o democratico; non può essere entrambe le cose, e non sarà mai davvero in pace» perché «la soluzione a due stati è l’unico modo per garantire la pace nel Medioriente» (nonché «per difendere gli interessi degli Stati Uniti nella regione», che non fa mai male, soprattutto per raggiungerla, la pace).
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU più volte si è espresso in merito, ad esempio, con la Risoluzione 242 (datata 22 novembre 1967, emanata dopo la Guerra dei sei giorni, che poneva come condizione per una pace «giusta e duratura» il ritiro delle milizie israeliane dai territori palestinesi ed il reciproco riconoscimento degli stati – mai rispettata), o con la numero 181 (risalente al 29 novembre 1947, che prevedeva la sopracitata “soluzione a due stati”, uno ebraico, uno arabo, con Gerusalemme città posta sotto tutela internazionale), entrambe richiamate nell’intervento di John Kerry: ma la situazione, oggi, è tutt’altro che sul punto di risolversi.
Ma il sodalizio tra Stati Uniti e Israele, al di là delle parole di Netanyahu, sembra tutt’altro che terminato (anche perché se oggi lo Stato palestinese non è riconosciuto in sede ONU è solo merito del veto di Obama del 21 settembre 2011). Se è vero che, come dichiarato da Kerry, «gli Stati Uniti hanno votato in linea con i loro valori», sembra altrettanto certo che tali “valori”, con l’arrivo alla presidenza di Donald Trump, siano destinati a cambiare.
Il neo presidente, infatti, dopo aver annunciato lo spostamento della sede dell’ambasciata a stelle e strisce, da Tel Aviv a Gerusalemme, si è subito mostrato particolarmente sobrio, pacato e diplomatico, definendo l’ONU «un club inutile» di «gente che si ritrova, chiacchiera e si diverte», insomma, «una tristezza infinita». Sentite queste parole, Netanyahu ha subito espresso impazienza: «Non vedo l’ora di lavorare con Trump».
La cattiva notizia è che più che a un riavvicinamento, somiglia a una minaccia; quella buona è che il premio Nobel per la pace assegnato ad Obama non è mai (incredibilmente) sembrato tanto meritato.
Anche se non sono sicuro sia proprio una buona notizia.

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