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Venerdì profano #28 – La prima gallina che canta ha fatto il golpe

Non si è mai parlato tanto di Costituzione come in questi mesi prima del voto e in queste settimane post-referendarie. Il problema è che prima di parlare (e di votare), in teoria, la Costituzione bisognerebbe anche averla letta. Da questo punto di vista, l'”accozzaglia del No” si è mostrata per quello che era: un’opposizione, da parte di alcuni nel merito della riforma, dall’altra al partito di governo – ovvero, appunto, esiste chi di Costituzione parla, e chi ne discute dopo averla letta e studiata.
Alle dimissioni di Renzi – su cui mi sono già espresso nell’episodio precedente – è infatti seguito un nutrito coro “Al voto! Al voto!”, capeggiato dalla Lega Nord e dal Movimento Cinque Stelle. Ma se il partito di Matteo Salvini si è sempre assestato su una posizione quale “Al voto subito!”, quella dei Cinque Stelle è un’assoluta novità. Dopo aver aspramente criticato il combinato Italicum-Riforma, infatti, a seguito dell’esito referendario, ha immediatamente cambiato idea: “Al voto, con qualunque legge elettorale”. Italicum compresa. Chiariamoci: i 5-stelle hanno tutto da guadagnare da una legge elettorale che premia il partito, non la coalizione, e ragionevolmente solo dopo il ballottaggio (che vedrebbe il Movimento, sondaggi alla mano, vincente sia contro il Pd che contro il Centrodestra).
I problemi, tuttavia, sono svariati:
1) l’Italicum è da molti ritenuta incostituzionale (in primis dal M5S); o in ogni caso, sicuramente, allo stato attuale, non applicabile;
2) il Movimento ha fatto una lotta aspra e strenua contro il (liberticida) metodo di votazione della legge elettorale – nonché sul merito della stessa (a mio avviso legittimamente criticabile);
3) la Consulta deve, in ogni caso, esprimersi sul contenuto dell’Italicum, che deve essere rivisto (grazie all’opera – anzi, alla non-opera – di Renzi, il riformatore, e Mattarella, l’ultimo firmatario) alla luce dell’esito referendario.
Il Governo Gentiloni più che un “governo di scopo”, o “fotocopia” (anche se basterebbe confrontare i nomi), è un “governo ad eiaculazione precoce”: è chiamato, in pochi mesi, a fare tutto ciò che era stato chiesto ad inizio legislatura – una legge elettorale – e a rimediare all’astronomico elefante nella stanza lasciato dal Partito Democratico al centro del paese, la totale instabilità del sistema bancario nazionale – del quale, per altro, si è ricominciato a parlare solo a urne chiuse, quando la situazione è al collasso da più di un anno. Insomma, deve soddisfare le innumerevoli esigenze dell’Italia nel minor tempo possibile.
Se però, da una parte, è lecito criticare le nomine ai ministeri e l’assegnazione delle varie poltrone, parlare di “golpe” è assai improprio. Se è vero, infatti, che «il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri» (art 92, Costit) e che «il Governo deve avere la fiducia delle due Camere» (art 94, Costit), nella scelta del Presidente Mattarella non v’è alcun errore. O golpe, o inciucio o chissà che. È semplicemente il regolare (de iure) andamento della vita democratica del paese: governa chi è in grado di formare una maggioranza. E, fino a prova contraria, i numeri e la conformazione del Parlamento sono rimasti gli stessi, così come le idee e le proposte dei principali partiti di governo e opposizione; senza contare che i cittadini hanno votato sul merito di una proposta di riforma costituzionale, e non per un partito o l’altro. Se nella scelta dei membri del Governo si sarebbe dovuto tener conto dell’esito referendario è ben altra questione; ma piaccia o no (e pare piaccia), la Costituzione è questa.
Riuscirà il Governo Gentiloni, nonostante tutto, a portare sul tavolo una legge elettorale decente e a guidare il paese attraverso questo tumultuoso periodo di transizione? Pare difficile, ma a dirsi è impossibile (soprattutto perché, al di là delle belle parole e delle lacrime ancor più meravigliose, Matteo Renzi non sembra affatto deciso a “ritirarsi dalla politica” – insomma, mantiene una promessa smentita alla volta).
Di certo, l’avventura del neo-premier parte male: dopo nemmeno una settimana, infatti, sono arrivate le prime richieste di dimissioni, dirette nei confronti di Valeria Fedeli. Il Ministro avrebbe infatti mentito nel proprio curriculum vitae: non sarebbe affatto laureata, come si leggeva (è stato poi cancellato) sul proprio sito personale, ma avrebbe conseguito un semplice “diploma di laurea”. Si aggiunga poi, con l’ironia degna d’un girone infernale dantesco in regime di contrappasso, che si tratta del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Se è vero che «i cittadini cui sono affidate le funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore» (art 54, Costit), probabilmente la Ministra dovrebbe dimettersi: non perché non laureata, ma perché ha mentito davanti all’opinione pubblica. Ma, per fortuna, pare che la Costituzione non l’abbia letta nessuno. E quindi se la min. Fedeli riesce, dall’alto del suo Ministero, a evitare che gli italiani inizino a leggere, è salva. E con lei molti.

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