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Venerdì profano #29- Quando tornerai dall’estero

Nel terzo canto infernale Dante, una volta entrato “nella città dolente”, “nell’eterno dolore”, “tra la gente perduta”, trova gli ignavi, costretti tra inutili affanni e tormenti perpetrati da vespe, mosche e vermi – non essendosi mai schierati, non avendo mai preso una decisione in vita, il loro destino è quello d’una eterna e vacua sollecitudine, apportata da insetti rappresentanti la di loro bassezza morale. È la nota pena del contrappasso per differenza: c’è corrispondenza, in opposizione, tra peccato e punizione.

In questo senso sembra si sia mosso l’operato dell’ultimo (e di conseguenza di questo) governo, il cui presidente, è bene ricordarlo, fu il più giovane della storia repubblicana. Basti pensare al “Fertility day”, il quale, al di là della resa, aveva uno scopo più che nobile: mettere in luce lo spaventoso rischio demografico cui l’Italia è particolarmente esposta. La popolazione italiana, infatti, fa sempre meno figli e, nel caso, li fa sempre più tardi, rendendo il nostro paese sempre più vecchio e ingessato, tra una mobilità sociale nulla e un ricambio generazionale pressoché inesistente. E per un paese, il cui tasso di emigrazione è maggiore di quello di immigrazione (se ne vanno più italiani di quanti stranieri arrivano), dove le campagne elettorali si giocano sui numeri degli immigrati che varcano i confini nazionali, il dibattito meriterebbe ben altro spazio e serietà. Anche alla luce della crescente e dilagante povertà nazionale.

Nel caso del “Fertility day”, si capisce, l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto.

 

In settimana il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali Giuliano Poletti, probabilmente non pago, ci ha riprovato, tornando sulla questione, ma da un’altra prospettiva (come i luminari veri, o gli artisti d’avanguardia, oppure un Paolo Bitta qualunque). Il suo ministero infatti, tra una disoccupazione che non accenna a diminuire, una ripresa che stenta a decollare e, una miriade di voucher da distribuire, ha ben altro a cui pensare, problemi ben più seri ed urgenti, preoccupazioni maggiori, ben altre gatte da pelare.

 

Le seguenti dichiarazioni sono particolarmente forti, quindi vi pregherei di sedervi comodamente, di prendere qualcosa da bere, e magari di afferrare la mano di una persona a voi cara, perché Poletti ha preso di petto la questione: «Bisogna correggere l’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei pistola. Permettetemi di contrastare questa tesi». D’altronde, il ministro lo sa (e se non lo sa lui), è informato, un esperto professionista e professore, quasi illuminato, e quindi contrasta la ridicola tesi: «Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi».

 

Il numero di emigrati italiani, o, per usare un termine tecnico, di gergo specifico, “di quelli che fino l’altro ieri avevamo tra i piedi”, è spaventosamente in aumento. Dal 2006 al 2016 l’emigrazione – o, stando al dizionario polettiano 2016, “la massa di quelli che han portato via i coglioni dall’Italia” – è aumentata del 54,9%: dai 3milioni di iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) nel 2006 si è infatti passati, in dieci anni, a 4,8milioni. A partire, per il 36,7%, sono stati ragazzi e ragazze di età compresa tra i 18 e i 34 anni, il 25,8% tra i 35 e i 49. La situazione, se si considerassero anche i dati sulla povertà, sarebbe oltre che grave, seria. Secondo l’Istat, infatti, del milione e mezzo di famiglie italiane in stato di povertà (più di quattro milioni e mezzo di persone), la maggior parte sono giovani: la povertà assoluta investe il 10,9% degli italiani di età inferiore ai 17 anni, il 9,9% di quelli di età compresa tra i 18 e i 34 (per quanto riguarda la povertà relativa, rispettivamente il 20,2% e il 16,6%). Dei 4 milioni e mezzo di poveri il 46,6% ha meno di 34 anni.

 

Le dichiarazioni del ministro hanno suscitato scalpore, indignazione, addirittura gli si è chiesto di dimettersi. Eppure, io lo difendo, ci sono almeno tre ragioni per cui Poletti non dovrebbe dimettersi:

1) nessuno ha provveduto a verificare lo stato di salute psico-fisico del ministro: ragionevolmente stremato dalle vicende politiche dell’ultimo mese (nonché dall’avere Alfano nel Consiglio dei Ministri, credo siano traumi poco conoscibili ai più, difficilmente superabili), potrebbe essersi dato al consumo di sostanze stupefacenti, superalcolici, o di una nota marca di birra molto simile al suo cognome;

2) è chiaramente la nuova strategia del Governo Gentiloni: Poletti ha detto ciò che ha detto affinché l’opinione pubblica si scordi della ministra dell’istruzione Fedeli e delle sue bugie riguardo il conseguimento di un’istruzione universitaria – il famoso “una figura di merda al giorno toglie il contestatore di torno”;

3) Poletti deve rimanere ministro per ricordare ai giovani italiani emigrati all’estero che il nostro è il paese delle opportunità: in quale altro stato un perito agrario, ministro del lavoro e delle politiche sociali, potrebbe permettersi di dire (o anche solo di pensare) certe cose?

È la regola del contrappasso. Peccato che più che di “commedia” si dovrebbe parlare di “tragedia”. E più che “divina”, la situazione pare più che mai profana.

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