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InChiostroVeritas (27) – Il silenzio uccide la dignità

«Il silenzio uccide la dignità»: recita così lo slogan contro la violenza sulle donne, scritto su questa foto che ho trovato in rete. Uno slogan azzeccato, un’espressione intelligente per trattare questo tema. Non c’è dentro la parola donna, non c’è dentro la parola violenza. Spicca invece la parola DIGNITÀ.

Un termine che mi ha sempre colpito, su cui ho cercato di riflettere più volte riferendomi ad Auschwitz, all’omicidio di Aldrovandi, ai suicidi causati dal licenziamento. Un termine all’interno del quale forse è racchiusa l’umanità dell’uomo. «Fino a che punto una persona viene considerata tale? Una persona che non pensa è ancora una persona? Una persona che viene trattata come una bestia è ancora una persona? Una persona che ha la stessa libertà di una mucca al macello è ancora una persona?». Mi ricordo queste domande, poste a noi studenti del liceo dal nostro professore di religione. Io mi battevo strenuamente per dichiarare che una persona, finché vive, fino al secondo prima di morire, è comunque una persona, è padrona della vita. Solo riflettendo più approfonditamente ho capito invece che “vivere” ed “essere padroni della propria vita”, non sono due espressioni completamente coestensive – o meglio, sarebbe giusto che fosse così, ma non sempre accade che questa sia la realtà. Me lo conferma quella mano davanti al volto della donna nella foto, come a incarnare l’archetipo del male, quello banale, che striscia, che non si fa riconoscere. La stessa mano che impugna una penna firmata di giorno e ne stringe tante altre come segno di cortesia, ma superata la soglia di casa si trasforma nell’emblema della violenza, nel modo più efficace di togliere la parola. È in questo modo che la violenza fa perdere all’uomo la sua dignità (e quindi anche la sua umanità, come riflettevo prima) perché la sua componente umana viene sovrastata da quella bestiale, animale, quella che non sa aspettare. Paradossalmente la donna si riduce a bestia nel dolore dei lividi e nel crollo psicologico solo in seguito all’uomo, che in primis si è scagliato su di lei con l’impeto del predatore sulla preda. Come ci fece notare durante una lezione di Filosofia Teoretica la nostra professoressa: uomo è colui che esita. Colui che sa resistere alla fame e non deve soddisfarla immediatamente interrompendo qualsiasi altra attività. Sa resistere all’impulso sessuale, non deve sfogarlo servendosi della forza, non importa dove, come o con chi. Sa resistere alla rabbia, non deve subito menare le mani e colpire con violenza un bersaglio, come se stesse premendo il batticarne sulla cotoletta. In questa prospettiva «esitare» significa essere padroni di sé, della propria vita. Esitare è il tratto distintivo della nostra umanità. Perché pensare è su un altro piano rispetto a parlare e agire. Pensare viene prima, e anche se quella mano può ammutolire le parole, i pensieri continuano a scorrere nel devasto che rimane di te.

Dopotutto, non avevo così torto in quei tempi del liceo a paragonare il “vivere” all’“essere padroni della propria vita”.

Forse la riflessione era corretta, anche se il mondo mi mostrava spavaldamente il contrario.

inchiostroveritas@gmail.com
@ChiostroVeritas

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