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Recensione / Re della terra selvaggia

di Andrea Viola

Buona la prima, verrebbe da dire. Anzi, più che buona, ottima. Perché l’esordio di un regista è sempre un fatto molto delicato: l’opera prima è l’essenza di ciò che sente l’artista, pur se intrappolato in quella rudimentalità che dà un sapore ancora più genuino all’opera d’arte. Perché si può ancora parlare di cinema come arte, giusto?
L’esordio di Ben Zeitlin ne è la dimostrazione: Re della terra selvaggia, visto per la prima volta al Sundance 2012 ed ora in corsa agli Oscar con 4 nomination, è una di quelle ormai rare pellicole con un’anima. Cosa che ormai solo il cinema indipendente riesce a regalare, in un’epoca in cui i film viaggiano a vele spiegate verso i lidi della standardizzazione assoluta.
In un’isola paludosa a sud della Louisiana, Bathtub, appena oltre il “mondo asciutto”, vanno in scena le vite di una piccola comunità che si nutre di gioia, respira vitalità ed emana un senso di magica primordialità, in una dimensione estranea a quella del resto della società. Protagonista è Hushpuppy, una bambina di sei anni che vive con il padre Wink e con il ricordo della madre, le cui giornate scorrono all’insegna della spensieratezza e della scoperta. La natura è teatro della vita della bambina che, con i suoi folti capelli ricci e i grossi stivali ai piedi si muove tra il fango, i rami secchi e le creature che popolano Bathtub. Ad un tratto però un uragano sommerge completamente l’isola, distruggendo l’equilibrio di questo strano ecosistema e costringendo gli abitanti a imbarcarsi su mezzi di fortuna, abitazioni ambulanti sulle quali vagare per le terre allagate. Inizia dunque una lotta per riappropriarsi di quelle terre a cui la comunità è indissolubilmente legata, ma soprattutto un percorso di crescita per Hushpuppy, così piccola eppure così libera e coraggiosa.

 

Re della terra selvaggia non ha una sola protagonista, la fantastica Quvenzhané Wallis: sua comprimaria è la natura, colei che ci dà da vivere ma che, all’improvviso, è in grado di togliere tutto ciò che ci ha regalato. La comunità di Bathtub, nel suo vivere in simbiosi con essa, nella totale semplicità, lontana dagli usi e i costumi della società moderna, tutto questo lo sa bene: la consapevolezza che il delicato equilibrio potrebbe rompersi esiste, ma si vive con gioiosa accettazione, dopo la quale rimane comunque un senso di combattività che alimenta una strenua lotta per la sopravvivenza e che porta gli abitanti del villaggio a non voler abbandonare la propria terra. Perché questa comunità è l’emblema di ciò che l’uomo dovrebbe tornare ad essere, una creatura tra le creature, capace di fondersi con tutto ciò di animato ed inanimato che lo circonda.
Un urlo disperato contro gli schemi della società moderna, con l’uragano che rappresenta un equilibrio che si rompe, forse per dare all’uomo la possibilità di ritrovare le proprie origini; un magico viaggio di crescita, soprattutto interiore, vissuto dalla piccola Hushpuppy, spinta dal padre malato che cerca di spronarla a diventare grande e imparare a badare a se stessa, a diventare la regina di quella terra selvaggia. Ma Hushpuppy è pur sempre una bambina che ha paura: il timore per l’uragano e la malattia del padre si traducono nella sua mente in terribili immagini di preistorici predatori che procedono inesorabili verso di lei, l’incombenza di un pericolo in arrivo che la piccola non sa ancora come affrontare.
Un film che, nonostante il taglio documentaristico, rapisce completamente, facendoci sentire parte di quella natura così viva e selvaggia grazie alle splendide immagini catturate senza filtri dalla videocamera; un equilibrio tra realtà e racconto di avventura, con alcune sfumature mitologiche, che rasenta la perfezione, regalandoci splendidi primi piani su ogni movimento dei personaggi e su ogni loro sguardo, carico di coraggio, speranza e paura.
Un esordio simile è insomma qualcosa che il pubblico e il regista stesso non si scorderanno facilmente, nel bene e nel male.

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