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Oscar 2013: il sentiero del cinema incontra quello della politica

di Andrea Viola

Gli Oscar riservano sempre qualche sorpresa. Giusto l’anno scorso, gli Academy portano al trionfo The Artist, un film muto e in bianco e nero che fa strage di cuori, raccontando con rara semplicità e raffinatezza l’amore per quella straordinaria invenzione chiamata Cinema.
Ma gli Oscar, lo sappiamo bene, sono molto di più: sono arte, glamour, gossip, attualità – ma soprattutto politica. D’altronde, non è forse vero che il cinema e la politica sono soltanto due modi diversi per raccontare la storia di un popolo o di una nazione?

 

Durante questa edizione degli Academy la politica degli USA, superpotenza dei giorni nostri non solo nella realtà ma anche nel cinema, è tornata ad essere la protagonista grazie a tre titoli – Lincoln, Argo, Zero Dark Thirty – tanto diversi tra loro quanto accomunati dalla voglia di raccontare l’America (di ieri e di oggi) gettando, almeno in parte, la maschera dell’ipocrisia.

Vince Argo, terza regia del quarantenne Ben Affleck, una pellicola amata e premiata come non mai durante questi mesi di corsa agli Oscar. Un racconto che si muove con grande maestria tra azione, dramma e commedia nell’intento di raccontare tensioni e contraddizioni tra gli Stati Uniti e l’Iran di trent’anni fa, evidentemente più vive che mai ancora oggi; ma il regista-attore non rinuncia a un’ironica e tagliente satira hollywoodiana, esprimendo chiaramente la nostalgia verso un cinema e un immaginario che lo hanno inevitabilmente plasmato, spingendolo verso un cinema “impegnato” e responsabile.
Se è stato il cuore, oltre all’intelligenza, ad aver guidato Ben Affleck nella realizzazione della sua ultima creatura, lo stesso “sentimento” si ritrova nel racconto di quella che è stata la missione più ostica ed impegnativa, in termini di sforzo, reputazione e rischi, per l’America contemporanea. Con Zero Dark Thirty Kathryn Bigelow firma una storia tanto lucida e rigorosa quanto appassionata nel narrare l’impresa di Maya, agente della CIA riuscita a portare a termine (dopo dieci anni di indagini e due mandati presidenziali) la cattura di Bin Laden. Così apparentemente fragile ed eterea, in un mondo tutto al maschile, la protagonista (interpretata da una favolosa Jessica Chastain) diventa lo specchio per una regista, la Bigelow, riuscita a farsi strada ad Hollywood con pellicole “da macho” e sbattendo in faccia allo spettatore, col suo ultimo film, una forte critica alle tecniche di tortura dei prigionieri utilizzate dalla CIA. Il vortice di polemica creatosi attorno a questo film ha, evidentemente, sbarrato la strada a Zero Dark Thirty durante la corsa agli Oscar, terminata con un nulla di fatto per quella che potremmo definire un’opera tanto controversa quanto affascinante.
Bottino magro anche per colui che risultava il favorito durante questa edizione degli Academy: Spielberg aveva collezionato ben 12 nomination per Lincoln, riuscendo a portarsi a casa solo due statuette – di cui una, quella per il miglior attore protagonista, andata ad un Daniel Day-Lewis formidabile nei panni del presidente che abolì la schiavitù negli Stati Uniti. Lincoln è un’opera imponente, formalmente perfetta, capace di raccontare con schematicità e retorica “kolossal” l’approvazione di un emendamento storico, tanto importante quanto sofferto e non privo di lati oscuri, fatti di compromessi, inganni e sacrifici. Prodotti di quella politica sporca e compromettente, come a voler dimostrare che le guerre non si consumano solo sul campo di battaglia.
È interessante notare insomma come il cinema americano, per l’occasione, si sia scrollato di dosso (almeno in parte) quell’anima buonista e patriottica a tutti i costi, portando a galla finalmente anche i limiti e le responsabilità di ieri e di oggi di fronte ai quali gli Stati Uniti non dovrebbero tirarsi indietro. E l’intervento, breve ma ispirato, di Michelle Obama, ci fa ricordare cos’è davvero il cinema: sogno e stupore ma anche verità e formazione. Non solo box office e propaganda.

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