Concorsi

Vita e miracoli di Nina Miraldi

Racconto di Anna Barilli – primo classificato al Concorso Letterario “Vita Futura” 2023

Non saprei risalire con precisione al momento in cui ci siamo viste per la prima volta. Deve esserci stato, però, spartiacque per tutti i nostri giorni a venire. Prima, puntini separati, vite piccole su binari diversi; dopo, interferenze sullo stesso canale, neologismo neonato da pronunciare con cura. NinaMarta, in un fiato soltanto.

Di una cosa sono più che certa: Nina affolla tutti i miei primi ricordi, spunta dai margini e sorride maliziosa nei suoi vestiti sgargianti. A scuola, in oratorio, nel quadrato rovente della piscina comunale, sulle chiazze smunte di prato giallastro in cui guardavamo le ore passare.
Allora vivevamo entrambe in pianura e in provincia, una combinazione che, a quell’età, altro non è che una maledizione di quelle cattive. Credo che fosse per questo, per sopravvivere alla pianura che ti spiana i pensieri, che avevamo cominciato a giocare.

Il gioco era facile e costava poco, perché non serviva nulla. Molto semplicemente, immaginavamo. Confezionavamo, con la dedizione che hanno solo i bambini, scenari già pronti da spalmare sulle nostre vite da grandi. Avevamo fin fondato una società, si chiamava Vita Futura.
Era nata in un patto ufficiale di salive mischiate alla terra. Avremo avuto sei anni, la scuola era noiosa e ci stufavamo in fretta.

Era, Vita Futura, soggetta a cambi tanto repentini quanto sorprendenti di statuto e gestione. Vita Futura, Hotel-cinque-stelle. Vita Futura, Tavola Calda. E ancora, Vita Futura, Circo & Luna Park. Ciascuna versione poteva tenerci impegnate per mesi, perché vi erano da definire innumerevoli dettagli, dalla forma dei divani nella hall, alla quantità di refill di coca-cola che avremmo concesso (dieci, ché eravamo generose), fino al colore dei vagoni in fila sulle pendenze stratosferiche degli ottovolanti. Lei era più brava di me, perché non si stancava mai e riusciva sempre a scendere più in profondità, e scovare qualcosa a cui non avevamo ancora pensato. Poi, non appena scorgeva la mia fronte corrucciata nello sforzo soverchiante di immaginare ancora e più a fondo, mi graziava. Gridava CAAMBIO alzando le braccia in aria e lasciandole precipitare giù, come a voler tirare una tenda bianca sulla vita che avevamo finito di usare.

In questo carosello di vite diverse che si succedevano l’una all’altra vi era un nocciolo immutabile che non cambiava mai, e quel nocciolo eravamo noi. Vivevamo sempre vicine, in spazi diversi ma comunicanti l’uno con l’altro in fitti reticoli di cunicoli e passatoie. Andavamo sempre d’accordo, avevamo mariti di uguale bellezza ma diversi capelli (io biondo, lei moro), e gestivamo l’impresa del momento in una diarchia simmetrica di oneri e onori.

La cosa incredibile, a pensarci ora, era che mentre io e Nina crescevamo il gioco cresceva con noi. Era diventato un espediente ben congegnato per affrontare la vita che c’era spacciandola per vita che sarebbe giunta, quasi che a guardarla da lontano facesse meno paura e la si potesse affrontare meglio.
Era Vita Futura, Sali & Tabacchi, alle prime sigarette nel cortile del liceo. Vita Futura, Incontri x Sempre, per far fronte alle prime delusioni d’amore. E ancora Vita Futura, Onoranze Funebri, la volta che era morto suo nonno. A questo giro ci era parso pure un nome azzeccato, e avevamo passato le ore a scrivere necrologi ed epitaffi di tutti i tipi, in rima alternata, in inglese, comici e strappalacrime, per una quantità imprecisata di personaggi, famosi e non famosi, spesso ancora in ottima salute.

Uno di quei giorni, tra una verifica e l’altra, Nina doveva essersene uscita con qualcosa del tipo Scrivi il mio e io scrivo il tuo? L’avevamo fatto ridacchiando, su una pagina strappata dalla metà del quaderno. Prima e unica volta che Vita Futura aveva operato separatamente, senza che decidessimo insieme che piega far

prendere al nostro destino. Poi ce li eravamo infilati in tasca e non ne avevamo parlato più, ché eravamo giovani e della morte ce ne importava fino a lì. Nina aveva dato il cambio in fretta e furia e Vita Futura si era trasfigurata in centro estetico, in cui poterci fare la ceretta a vicenda e soffrire per davvero.

Negli anni a venire mi sarei soffermata più volte a pensare: era amore? Forse sì, forse lo era davvero e non lo sapevamo. Oppure lo sapevamo, ma non lo volevamo sporcare, circondate com’eravamo di amori squallidi che duravano l’inverno e si sfilacciavano l’estate. Noi sopravvivevamo a tutte le stagioni e parlavamo senza vergogna. Vivevamo storie piccole e deludenti che finivano subito, perché avevamo aspettative troppo alte e c’eravamo già sognate tutto. Ad un paio di feste c’eravamo pure baciate, come facevano tutti, poi la vita era proseguita ed era la vita di sempre. Avevo visto Nina nuda centinaia di volte. Era bella ma pareva non accorgersene. Io non glielo dicevo quasi mai, impegnata com’ero a guardarmi allo specchio scontenta. Forse era amore ma un amore così non ce lo eravamo mai immaginato, e ormai avevamo vissuto troppe vite in letti diversi di case attaccate per accorgerci di quanto fosse luminoso.

Poi il futuro ci si era srotolato davanti sul serio e non somigliava a nessuno di quelli possibili, quasi che dio avesse deliberatamente ignorato il nostro archivio pronto all’uso per punirci di tanta insolenza. Vita Futura era fallita, si era dissolta dentro al turbinio delle cose da fare. Avevamo smesso di crescere in altezza ed eravamo tornate ad essere puntini separati che scivolavano alla deriva.

Lei se n’era andata, ché aveva saputo immaginarsi più lontana, ed io ero rimasta, col mio marito biondo e la pianura che mi spianava i pensieri. Non era facile, avere vent’anni e fare quella che resta. C’era da tenere tutto attaccato con la metà dei pezzi, perché le rare volte che gli altri tornavano si ritrovassero a pensare che non era cambiato nulla e che la vita continuava, con o senza di loro. Non era vero, mai, ma partendo avevano smesso di meritarsi la verità. Nina tornava poche volte, poi pochissime, e anche con lei recitavo alla perfezione la messinscena impeccabile della mia vita felice.

Aveva continuato a scrivere, e la mandavano in giro. Perché capiva le cose senza fare troppe domande e restava discreta, si accontentava di firmarsi con le iniziali in un trafiletto a metà giornale. Ogni tanto li leggevo, i suoi articoli. Scriveva ancora bene, ma immaginavo soffrisse a doversene stare così composta dentro la verità, a non poter sconfinare oltre quello che accadeva per fuggirsene libera a inventarsi il finale. Vedevo quella sua impronta scarna, N.M., e tutto ciò a cui pensavo era non male Nina, non male, ma non sei tu.

Io avevo smesso di scrivere, perché senza di lei le idee che intravedevo sotto la superficie restavano inafferrabili, guizzi argentati di pesci minuscoli. Pensavo alla vita, a quella vera, a lavorare, a scopare e a mangiare. A fare dei figli e badare che non venissero su troppo male. Questa era la vita futura: c’eravamo cadute dentro, e c’eravamo perse.

La chiamata è arrivata una sera, mentre tornavo a casa. Il numero era sconosciuto e la voce si trascinava un accento straniero che dava fastidio. Volevo mettere giù, e avrei dovuto farlo, ché mai avrei voluto sentire che era stata lei, alla fine, a stancarsi per prima. Non mi pareva possibile, perché non era mai successo. Ero io, quella che si stancava. Ero sempre io.

Se chiudevo gli occhi la immaginavo saltare, le braccia levate in alto che le ricadevano lungo i fianchi un attimo prima che scomparisse nell’acqua. Gridava cambio, ma non potevo sentirla.

A fare quella che resta, i ricordi non sono che un cumulo di scatoloni impilati in cantina. Per cui non è stato troppo difficile, trovare quello che cercavo. Era un foglietto ripiegato due volte, a quadretti, scritto a penna blu.

Nina, mio cuore e mia disgrazia,
l’ora di matematica è già talmente ardua, senza che debba fare i conti
con l’idea della tua morte.
Perché di tutte le vite possibili
soltanto in questa, di Vita Futura,
io non sono mai abbastanza forte,
e sempre mi divora la paura.

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