La Lettera

Racconto di Lorenzo Costabile, secondo classificato al Concorso Letterario “Vita Futura” 2023

Alle cinque di un afoso pomeriggio di maggio il campanello suonò. Enrichetto – di anni ventinove – entrò subito in uno strano stato di soggezione. All’improvviso sudava freddo, era sul ciglio di un dirupo senza parapetto, in pieno bosco di fronte ad un orso grizzly, agitato e indifeso. Il motivo era presto detto: quel trillo metallico, ricordo di un’era analogica ormai andata, annunciava una cattiva notizia. Qualcosa di importante, di irrimediabilmente grave. Nessuno usava più il citofono da un pezzo. Non c’era interazione umana se un pacco doveva essere consegnato: ogni palazzo ora possedeva una serie di casseforti esterne che con codici univoci temporanei si sbloccavano prima per l’arrivo dei corrieri, poi per il ritiro dei colli dai condomini. Era più comodo così. Il pulsante del citofono non veniva premuto neanche all’arrivo di un amico: era ormai consolidata prassi quella di inviare messaggi come “sono giù” o “apri” all’altro dentro casa, con il rischio di restare ad aspettare minuti e minuti. Questo non era più comodo, ma ormai era così. Tante cose nel tempo cambiano ma non migliorano, sono semplicemente così. I saggi consigliano di non paragonare il presente al passato, poiché il presente mutua dal passato, lo contiene, e per questo non è meglio, e non è peggio: è semplicemente così. Il disuso diffuso del citofono faceva restringere il campo, dunque, ad una sola possibilità: la consegna di una lettera speciale, nota a tutti i cittadini, che era meglio non ricevere. Quest’ultima doveva essere necessariamente recapitata, con la massima urgenza e prudenza, nelle mani del destinatario. In quel momento, i suoi genitori erano intenti a resuscitare una pianta di basilico decrepita sul terrazzo.

Perciò, Enrichetto si avviò schivo verso la porta, con mano tremante agguantò la cornetta e chiese: «Chi è?» La voce dall’altoparlante: «Ssssentaaa… una lettera… mi dispiace. Lei chi è?»
«Enrico.»
«Devi scendere allora, è per te.»

La lettera pareva un cimelio antico. Una bustina, umile, di carta bianca quasi color panna, proteggeva il messaggio. Il timbro blu della Repubblica evocava sentimenti gravi e misteriosi. All’interno, un foglio ripiegato su séstessorivelaval’oggettodellamissiva:“AVVISO DI FUTURO DECESSO”.Losguardoimpanicato si spostò rapido su altre parole, in grassetto. Il nome “Enrico Gemelli”, l’aggettivo “imminente” nell’espressione “imminente morte”. Un prurito gli partì dalla punta del naso, invase le orecchie, poi percorse il torso e si propagò come una scossa lungo braccia e gambe. Il foglio gli cadde dalle mani.

Rientrata la madre, Enrichetto la guardò e con voce penosa fece: «Dice che domani muoio».

All’inevitabile momento di commozione generale, e il più che lecito momento di disperazione, seguì un insolito finale di rassegnazione pragmatica. In effetti, quasi nessuno accettava mai ciò che gli annunci di morte proferivano. I più speravano fino all’ultimo istante in errori logistici, equivoci amministrativi, casi di omonimia, postini imbranati – le stime pubblicate ogni 1° gennaio, però, parlavano di poche decine di casi di errori su centinaia di migliaia di predizioni corrette. Il governo non aveva mai voluto rendere pubblico il meccanismo complesso di previsione della morte. Gli scienziati del centro studi della capitale, intervistati, ogni volta tagliavano corto e si limitavano a dire che il calcolo era “affidabile”. Per questo motivo, in molti, dopo aver ricevuto le lettere, continuavano le loro attività con fare sprezzante, scettici sulla validità di questa nuova scienza. Altri ancora si imbottivano di medicinali o pregavano di essere ricoverati, ma senza sintomi di nessun tipo. Una categoria a parte erano i suicidi: per paura di una morte improvvisa essi decidevano di farla finita, nei modi più disparati e disperati, convinti in questa maniera di aggirare il problema. I fattacci avvenivano comunque nella stessa data indicata sulle lettere (che mai specificavano la causa o il modo del decesso) e contribuivano, così, ad affinare le statistiche di esatta predizione. I Gemelli, invece, realisti e disillusi da generazioni, si adoperarono mesti a programmare il fatidico giorno.

La lettera parlava chiaro: la tomba era pronta (il Comune aveva provveduto ad incidere già il nome) e volendo la si poteva visitare in anticipo. Anzi, si chiedeva la cortesia di farsi trovare direttamente in loco, laddove fosse possibile, al fine di evitare inutili emissioni di CO2 da parte di ambulanza e carro funebre. Seguivano ulteriori indicazioni opzionali: munirsi di vestito elegante (preferibilmente nero), acconciare i capelli e rasare la barba, comunicare tramite apposita app un epitaffio, oppure, curiosamente, grazie alle nuove lapidi touch con bluetooth incorporato, scegliere una canzone da far ascoltare (rigorosamente con auricolari per non disturbare la quiete del cimitero) al momento della visita al defunto.

Si era fatto buio. Dalla porta semichiusa della cucina fuoriusciva un cono di luce gialla ed un basso vociare, un tono triste, ma non nervoso, né alterato. I suoi volevano concedergli del tempo da solo, e nel frattempo, piagnucolando, mettere in ordine le ultime cose: prenotare l’abito dal sarto, i fiori dal fioraio, organizzare il funerale.

Il padre gli aveva detto: «Tu scegli una canzone adesso», per farlo stare sereno, tenergli la testa impegnata.

Ma la scelta della canzone si rilevava cosa assai difficile, quasi una tortura. Bisognava che fosse una canzone triste, rappresentativa del momento della morte? O una canzone emblematica della sua persona? Di sicuro una canzone di un certo spessore, pensava, mentre usciva in terrazzo a prendere un po’ d’aria.

Nemmeno la soddisfazione della cifra tonda! Non arrivare ai trent’anni gli sembrava l’ultima beffa di una vita già sfigata. Sei anni di università, due lauree conseguite in materie umanistiche, un’unica fonte di reddito autonomo: le ripetizioni di francese alla vecchia vicina ottantacinquenne (in cerca di compagnia).

Dava la colpa alle fottute intelligenze artificiali fotti-lavoro, mentre il padre giornalmente imbeccava: «Un impiego statale, questo ti ci vuole… un posticino alle ferrovie, nelle forze dell’ordine… liscio come il culo di un bambino, eh!»

Una vita mediocre e una fine patetica: non per una guerra nucleare, non per le conseguenze estreme della siccità, nessun riappacificamento col mondo, nessun caldo abbraccio collettivo solidale con l’umanità. Se ne sarebbe andato indegnamente a ventinove anni, verosimilmente solo e soprattutto irrealizzato.

Guardò quella piantina di basilico secca che quasi gli somigliava, poi quel lampione spento, quella vecchia macchina abbandonata da tre anni al lato della strada, quella barra di ricerca vuota sullo schermo. Cercava una canzone passionale, un po’ malinconica, sobria, profonda, di musica elettronica sperimentale ma con strumenti a corda e tamburi, si sforzava di trovarne una buia, buia, buia, eppure con dei fiori e certi raggi luminosi, con il mare, animali esotici silenziosi, amori perduti e mai conosciuti, ghiacciai sciolti, carovane, echi. Erano già le ventitré, aveva saltato la cena… perché saziarsi se il giorno dopo sarebbe crepato? Ma a che ora poi? E come? Di colpo? Senza nemmeno qualche minuto di doloroso preavviso? Non era più tanto il pensiero della morte… era la consapevolezza di star sprecando i suoi ultimi istanti a cercare qualcosa che non avrebbe mai trovato: non la canzone, certo che no, ma le risposte a tante sue domande.

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