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Bene, ma non malissimo: “Tomb Raider”

Altissima l’aspettativa degli appassionati del mondo videoludico per questo reboot della saga di Lara Croft, dopo i due insipidi e mediocri titoli cinematografici Lara Croft: Tomb Raider (Simon West, 2001) e Tomb Raider – La culla della vita (Jean de Bont, 2003), ricordati esclusivamente per la protagonista, Anjelina Jolie, rimasta nei cuori di tutti gli adolescenti.

Tomb Raider prende le distanze sia dalle prime due generazioni videoludiche (cui ammicca solo nella credit scene) che dai due film precedenti, ripercorrendo i passi dell’omonimo gioco del 2013, cui si ispira liberamente anche per la trama. Un nuovo inizio, una nuova Lara Crtomb raider videogameoft: quella di Alicia Vikander è una Lara più giovane, ingenua, fragile. Grazie ad una grande somiglianza con il personaggio creato dalla nuova direzione artistica del videogame, l’attrice svedese regala a questo neonato franchise cinematografico una protagonista femminile caTmb raider2rismatica e convincente. Specialmente nelle coreografie di lotta, molto ben dirette, si avverte prepotentemente l’inadeguatezza dell’esile figura dell’eroina rispetto ai suoi nerboruti avversari, in contrasto con l’immagine stereotipata delle action stars femminili, capaci di incassare quanto Rocky Balboa. Walton Goggins come sempre perfetto nel ruolo dell’antagonista.

Le premesse sono quindi solide, ma la realtà in sala è ben altra. Se il soggetto fintantoché si mantiene aderente al videogioco da cui prende le mosse è convincente, quando se ne allontana – pretendendo ad esempio di dare una parvenza di scientificità al magico che ha sempre caratterizzato la saga – risulta farraginoso e banalotto. Il cattivo interpretato da Goggins è descritto con una sequenza di scene estremamente stereotipiche, mentre Dominic West nel ruolo di Croft padre sembra in generale spaesato e poco convinto di quale sia il suo posto in questa pellicola. Si è parlato bene della bravissima Vikander (qui la nostra intervista alla sua doppiatrice), ma le sue qualità ristagnano nel piattume generale della sceneggiatura. Le poche sequenze che strizzano l’occhio a chi il videogame l’ha giocato sono un piacere, ma annegano in una stesura di dialoghi che oscilla tra il prevedibile e l’agghiacciante. Scontati e privi di qualsiasi sorpresa, oltre che talvolta quasi sconclusionati e fin irrelati alla trama. Al centro della storia vorrebbe esserci il rapporto col padre – amato ma assente – ma che risulta in realtà piuttosto canonico e talvolta eccessivamente melenso. La conclusione ovvia è che per i prossimi capitoli, che avranno senza dubbio luogo visto il successo al botteghino, assumano uno sceneggiatore – almeno un po’ – più intraprendente della coppia formata da Geneva Robertson-Dworet e Alastair Siddon.

Un intrattenimento senza pretese ma senza infamia, con buone possibilità di sviluppo per i sequel. Il suo più grande pregio è quello di spiccare per la linearità e la coerenza della trama in un segmento, quello dei film tratti da videogiochi, altrimenti desolante. Basti ricordare titoli dal deludente al pessimo come Prince of Persia – Le sabbie del tempo (2001), Super Mario Bros (1993) e il recente Assassin’s Creed (2016).

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