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Tra tempo, parole e immagini: intervista a Corrado Benigni.

Corrado Benigni è nato nel 1975 a Bergamo, dove vive e lavora. Ha pubblicato diversi libri di poesia: Alfabeto di cenere (LietoColle, 2005); Tribunale della mente (Interlinea, 2012). Nel 2010 la sua silloge Giustizia è stata inclusa nel Decimo Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos). Suoi testi sono apparsi su diverse riviste specializzate italiane ed estere. Recentissima è la pubblicazione di Tempo riflesso (Interlinea, 2018).

Rispondendo ad un questionario del sito Pordenonelegge.it, lei ha detto che “la poesia ha a che fare con la vita”. In che modo quindi la parola poetica riesce a stabilire un contatto con la vita? E qual è la sua concezione di poesia?

Tutto parte sempre dalla vita, dall’esistenza che ognuno di noi vive. Ed è così anche per la poesia (anche quella più astratta e oggettiva), che non può prescindere da essa, semmai cerca di trascenderla, di andare oltre. In fondo il destino dell’uomo è vivere una vita sognandone un’altra. “La vera vita è altrove”, ha detto Rimbaud. La poesia è per me un medium tra la realtà che vivo e un altrove, è il tentativo di connettere queste due dimensioni e insieme lo strumento per andare al di là di ciò che è sotto i nostri occhi, oltre le apparenze. In questo senso la poesia è anche uno strumento di conoscenza.

Prendendo le mosse sempre dal sopracitato questionario, sappiamo che tra i suoi modelli letterari possiamo annoverare Fortini, Montale, Campana, ma anche Mandelstam e Borges. Oltre a questi grandi nomi del ‘900, ci sono anche altri autori che la ispirano o che le sono particolarmente cari?

Penso che ogni stagione della vita abbia i suoi libri. Almeno per me è così. Certo ci sono autori che sento particolarmente vicini, tra questi senz’altro Baudelaire, che amo molto, non solo come poeta, ma anche come scrittore in prosa. In particolare le sue prose d’arte. Della sua poesia mi colpisce sempre la metrica iconica. Negli ultimi anni leggo molta letteratura americana. Narrativa e poesia. Amo particolarmente due poeti: Mark Strand e Charles Simic, entrambi legati anche al linguaggio delle immagini, il primo ha scritto un bellissimo saggio su Hopper e anche il secondo spesso si è occupato di arte e fotografia. Questi due autori mi hanno insegnato una maggiore distensione del verso. Un altro scrittore per me importante è Sebald: i suoi libri, sempre originalissimi, nel continuo dialogo tra parola e immagine, sono ogni volta ossigeno per la mente. Non nascondo infine di avere imparato anche dagli scritti di Luigi Ghirri, che, non solo con le sue fotografie ma anche con le sue parole, mi ha insegnato un modo nuovo di vedere, cogliendo l’invisibile di ciò che è visibile. Esattamente quello che la poesia dovrebbe fare.

Sappiamo che proprio la fotografia è una di quelle arti che la influenzano maggiormente. Cosa suscita la fotografia in lei rispetto ad altre arti, come per esempio la musica o il cinema? In secondo luogo, ci farebbe piacere sapere se vi sono altri mezzi comunicativi o artistici che influiscono sulla sua produzione poetica.

È vero, la fotografia ha avuto un ruolo centrale nella mia ricerca di questi anni. Ho scritto molto su questo linguaggio e in particolare su alcuni grandi maestri italiani degli ultimi decenni, come Luigi Ghirri e Mario Giacomelli, cercando ogni volta di mettere in luce le connessioni tra poesia e fotografia. Questi due linguaggi hanno molte cose in comune, a cominciare proprio dal tempo: entrambi sono legati all’istante. Una poesia, così come una fotografia, possono contenere “mondi” in un intreccio di singolare e di cosmico. E la sfida di ogni poeta (e di ogni fotografo) sta proprio nel condensare questo flusso irripetibile. Rispetto ad altri mezzi artistici, posso dire che la mia sensibilità è certamente più vicina ai linguaggi iconografici e visuali (penso all’arte e al cinema). Per dirla con Simic mi sento un “cacciatore di immagini”: i miei occhi, la mia immaginazione, sono sempre alla ricerca di immagini, di connessioni, di analogie. Come dice Leopardi nello Zibaldone: «La significazione degli occhi è tanta, ch’essi sono i rappresentanti della vita, e basterebbero a dare una sembianza di vita agli estinti».

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Per ricollegarci alla domanda precedente, abbiamo saputo che è da poco uscita la sua nuova raccolta poetica, Tempo riflesso, che lei stesso ha definito come “un’indagine sul tempo attraverso un gioco di specchi tra fotografia e poesia”. Quale rapporto si va ad instaurare quindi tra parola, immagine e tempo che scorre?

L’idea alla base è che le parole, così come le immagini, la fotografia in particolare, possono rappresentarci solo condensandoci nell’istante, mentre la vita avviene nel tempo, nella durata. Non si tratta di riprendere il precetto oraziano ut pictura poesis, ma di mostrare che poesia e fotografia non rappresentano la realtà così com’è, piuttosto un’idea, che sono strumenti di indagine metafisica. Sono lanterne sull’invisibile.

Infine, ci chiediamo se e come Tempo riflesso va a dialogare con la sua precedente raccolta, Tribunale della mente (2012), e come, inoltre, si inserisce nella più ampia prospettiva della sua produzione poetica.

Qualcuno ha detto che ogni poeta è autore di un solo libro. Non so se sia esattamente così, tuttavia pur nella diversità di temi, questi due libri hanno alcune cose in comune, a cominciare dall’idea di fondo che ogni volta mi spinge a scrivere poesia: rappresentare la nostra condizione di uomini, la nostra “pulviscolare presenza”, come dice un verso di “Tempo riflesso”. In “Tribunale della mente” l’ho fatto attraverso il grande archetipo della giustizia, dove il tempo è il grande giudice finale. In questo ultimo libro, invece, ho indagato più direttamente la dimensione temporale. Perché come diceva Marisa Madieri: “Siamo tempo rappreso”.

Alcuni testi da Tempo riflesso, gentilmente concessi dall’autore.

Meridiana

Si dovrà pur far ordine

in questo ordine che è il tempo,

ricongiungendo la trama alle parole

i semi alla radice,

regolare il respiro a qualcosa

che respiro non è, riallineare

la polvere a questa superficie.

Luce e meridiana,

non c’è precisione senza rotazione,

non c’è allarme prima della fine.

Il movimento fisso delle stelle

è la sola perfezione,

mentre una chiave oscilla nell’attesa.

In nome di che?

In nome di che cosa scriviamo

e cerchiamo nella parola una scintilla?

In nome di che cosa i pianeti ruotano

intorno a orbite fisse

e un’attesa ci fa dire: più in là?

Non possiamo parlare in nome della verità,

ma possiamo dire il vero, custodire una voce,

mentre le radici diventano alberi

e gli alberi case per insetti.

Lasciatemi tempo, dicevo da bambino.

Ora dico: occhi e mani, quello che resta della luce

di una promessa,

mentre il futuro si restringe a perdita d’occhio.

Scrivo da qui e a qualcuno. Finalmente.

Il luogo non conta.

Il silenzio della scena

Quante voci restano imprigionate nelle case abitate

prima di noi. Impigliate tra le fessure dei muri, nelle

fughe del pavimento, ci respirano accanto, presenze

invisibili, si muovono furtive al nostro fianco. A volte

provo a interrogarle, lotto col loro silenzio, in un

alfabeto incomprensibile, un linguaggio dimenticato. Un

corpo a corpo in una scena muta. È tutto qui: siamo

parola strappata dalla carne, dai corpi che il decrescere

delle ombre lentamente scopre.

Immagini di immagini

Quante immagini si nascondono dentro altre immagini,

quante parole rannicchiate – come animali – all’interno di altre.

Un bosco ancora respira nelle nodosità del tavolo,

dove ogni mattina appoggio la mia tazza.

C’è una trascendenza tangibile

nell’infinita interiorità di un filo d’erba,

dentro l’acqua, dove spinge una forza opposta alla gravità

e disegna cerchi in superficie.

Tempo rappreso

Come grovigli di cavi sopra le strade

le parole disegnano sul foglio

il profilo del mio volto,

trattengono nel bianco

la mia voce impigliata nel nulla.

Così dentro la pagina io vivo, muoio,

rinasco ogni giorno.

Perché dentro le parole io sono,

sono tempo rappreso.

Album

Nelle metamorfosi di Giacomelli

i nodi del legno sono maternità, schiena, capelli.

Se osservo i dettagli,

un tronco è un nudo di donna con i seni

o un uomo,

un paesaggio con un arbusto.

L’immagine è un alfabeto muto

che condensa il vero

di ciò che non ha nome.

Così l’albero tagliato diventa un fosso,

un’ombra, una scanalatura nella terra.

*

Il tempo esiste solo

in ciò che sfugge al nostro sguardo,

un’illusione che nel suo svolgersi

scava a ritroso come una talpa.

Dentro l’invisibile giacciono

depositi di memoria,

strati di materia inesplorata, residui fossili

e l’impronta del presente

che contiene tutto quello che è stato,

perché tra due istanti c’è un’infinità di istanti.

*

Cerco immagini che non ci sono

forse ripiegate dentro minuscoli dettagli,

come trame scucite nelle figure di Kertész,

l’abito liso della donna che osserva il soldato ussaro,

lo sguardo di lui che non cede alle lacrime.

Separazione o incontro? In uno scatto

tutto si confonde, si somiglia,

perché dentro l’immagine ogni cosa resta implicita

e ciò che è scomparso riappare, isolato,

nella durata oltre l’istante.

*

La fotografia è un testimone che non mente

porta impressa, sicura, la memoria,

come la superficie l’orografia di un paesaggio.

Siamo se non nel segno di chi scrive

o guarda.

Così ci specchiamo nei corpi non trasfigurati

di un’immagine, nella loro violacea penombra.

Ma cosa divide dal nostro il loro destino?

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