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Il canto del cigno di Sylvia Plath

La scoperta di nuove lettere svela alcuni dettagli sul rapporto di Sylvia Plath con Ted Hughes e sugli ultimi anni della sua vita.

 

 L’11 febbraio 1963, Sylvia Plath, una delle voci più significative del ‘900 poetico americano, decideva di porre fine alla sua vita, chiudendo la propria testa nel forno a gas della sua casa a Londra.

Oggi, a più di cinquant’anni da quel giorno, sono emerse alcune lettere inedite, che gettano una nuova  e inquietante ombra sull’ultimo periodo di vita della poetessa, e anche, soprattutto, sul rapporto con il marito, il poeta Ted Hughes.

Come riporta il The Guardian, le lettere, scritte in un periodo che va dal 18 febbraio 1960 al 4 febbraio 1963, facevano parte di una raccolta, appartenente a una studiosa americana, Harriet Rosenstein, intenzionata a scrivere una biografia sulla Plath. Sono state messe all’asta dall’antiquario Ken Lopez per un valore di 875mila dollari  e questo ha fatto sì che siano state ritrovate.

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La corrispondenza in questione è indirizzata a Ruth Barnhouse, amica, nonché psicanalista della Plath fin da quando, nel ’52, poco più che ventenne, aveva tentato il suicidio per la prima volta.

Inquietanti sono le rivelazioni che la scrittrice americana fa al suo medico. In particolare, ad essere attaccato è il marito, Ted Hughes, conosciuto nel ’56 a Cambridge, dove la ragazza aveva vinto una borsa di studio, e sposato nello stesso anno.

Sylvia scrive che Ted l’ha picchiata più di una volta all’interno delle mura domestiche. Il 6 febbraio del 1961, la Plath ha un aborto spontaneo e, stando a quanto le lettere dicono, appena due giorni prima il marito l’avrebbe percossa, compromettendo così la gravidanza.

Nove sono le lettere di questo piccolo corpus datate tra il 1962, anno in cui la Plath scopre l’infedeltà del marito e vengono avviate le pratiche di divorzio, e il 1963. In una di queste, scritta in data 18 ottobre ’62, la scrittrice americana rivela alla Barnhouse che Ted, esplicitamente, le avrebbe detto di preferirla morta.

Il clima di violenza e durezza, che mina una psicologia già fragile come quella della poetessa nativa di Boston, si riflette ovviamente sulla poesia, dove si  addensano  immagini forti, che rimandano al campo semantico dell’abuso e che non di rado sembrano alludere proprio a Hughes.

In Daddy, dell’ottobre del 1962, leggiamo, infatti “I made a model of you, / A man in black with a Meinkampf look / And a love of the rack and the screw.” (“Mi fabbricai un modello di te,/un uomo nero con un’aria da Meinkampf,/un amante del bastone e del torchio./)

Invece, per esempio, in Poppies in October, sempre dell’ottobre del ’62, i papaveri diventano simbolo di un dono della vita, ma costretti in un mondo soffocante e raggelante.

 

Poppies in October

Even the sun-clouds this morning cannot manage such skirts.
Nor the woman in the ambulance
Whose red heart blooms through her coat so astoundingly –

A gift, a love gift
Utterly unasked for
By a sky

Palely and flamily
Igniting its carbon monoxides , by eyes
Dulled to a halt under bowlers .

O my God, what am I
That these late mouths should cry open
In a forest of frost, in a dawn of cornflowers.

 

La sensazione di essere “come un cavallo in corsa in un mondo senza piste” (The Bell Jar) è una tematica che accompagna il lavoro della poetessa fin dalle origini e che darà vita, per l’appunto, al suo unico romanzo The Bell Jar, (La campana di vetro), pubblicato nel 1963.

Risulta chiaro, quindi, che le violenze subite, denunciate in queste nuove lettere, non solo rafforzano le credenze che volevano Hughes come un marito violento e incapace di amare in maniera sincera, ma ci svelano un periodo della vita della poetessa rimasto poco chiaro troppo a lungo.

Se è vero difatti che la Plath tenne un diario fin dall’età di undici anni, è anche vero che la parte relativa al suo ultimo periodo di vita, dall’autunno del ’62 fino alla morte, nel febbraio ’63, ci è giunta solo sottoforma di appunti. Stando a quanto detto dallo stesso Hughes, alcune pagine vennero da lui bruciate, per preservare il benessere psicologico dei figli, mentre altre ci giungono solo sottoforma di bozze.

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Il 1962 è anche l’anno di composizione di quelli che vengono considerati tra i migliori versi dell’opera plathiana, ovverosia le poesie della raccolta Ariel, pubblicata postuma, due anni dopo la scomparsa della poetessa.

I componimenti di questa raccolta possono essere ora letti sotto una luce diversa, ripensati nell’ottica di una vita familiare a pezzi, con il divorzio alle porte, e l’incapacità di sentirsi realizzata all’interno di una società opprimente, in cui la donna è relegata al ruolo di madre e in cui una stritolante normalità ignora la poesia.

Particolare attenzione in questo senso meritano gli ultimissimi componimenti della vita della Plath, risalenti ai primi giorni del febbraio del ’63.

What is so real as the cry of a child (Cosa c’è di più vero di un grido di un bambino), scrive in Kindness (Bontà), dove il grido del bambino potrebbe alludere all’incombenza di doveri inalienabili, alla dicotomia inconciliabile fra lo scegliere di essere poetessa o di essere madre.

Words (Parole) può essere invece letta come una dichiarazione di resa, un’ammissione di non riuscire più a dominare la realtà per mezzo della parola poetica. Paradossalmente, è proprio alla poesia, e a questa in particolare, che Sylvia Plath affida il proprio fallimento etico e esistenziale. È per questo motivo che “La linfa (la linfa vitale) affiora come lacrime”, sgorgando via dal legno dell’albero, metafora per il corpo umano, mentre le parole diventano “aride e senza cavaliere” .

 

La depressione di quegli anni, le cui cause la Plath riporta nella sua corrispondenza, oggi ritrovata, ha il suo apice, come detto, l’11 febbraio 1963.

A niente valgono né il felice periodo creativo, che pochi mesi prima (ottobre ’62) aveva dato alla luce ben trenta componimenti, poi confluiti in Ariel, (“Sto scrivendo le poesie più belle di tutta la mia vita; mi renderanno famosa…”, scriveva alla madre in quell’anno) né la pubblicazione, nel gennaio ’63, del romanzo autobiografico The Bell Jar, a cancellare quel recente passato fatto di abusi e violenze, non solo psicologiche.

Il 4 febbraio scrive alla madre dicendole che “tra poco incomincio ad andare da una dottoressa […] che dovrebbe aiutarmi a superare questo difficile periodo”.

Il giorno seguente, poi, il suo congedo, forse conscio, dalla poesia, con due opere in versi, Balloons (Palloncini) e Edge (Limite)

Quest’ultimo componimento, forse un atto di preparazione, presenta un dramma visto dall’alto, dove, nel finale, lo sguardo diventa quello impersonale della luna.

 

Edge

 The woman is perfected.

Her dead

Body wears the smile of accomplishment,

The illusion of a Greek necessity

Flows in the scrolls of her toga,

Her bare

Feet seem to be saying:

We have come so far, it is over.

Each dead child coiled, a white serpent,

One at each little

Pitcher of milk, now empty.

She has folded

Them back into her body as petals

Of a rose close when the garden

Stiffens and odors bleed

From the sweet, deep throats of the night flower.

The moon has nothing to be sad about,

Staring from her hood of bone.

She is used to this sort of thing.

Her blacks crackle and drag.

 

plath1Sconvolgente notare le allusioni, possibili solo con uno sguardo a posteriori, di quello che stava per succedere. Meno di una settimana dopo, l’11 febbraio, Sylvia Plath si sarebbe tolta la vita.

Qui e qui potete trovare gli articoli integrali del The Guardian.

Qui la traduzione in italiano di Poppies in October.

  • Qui la traduzione in italiano di Edge.

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