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The Clock, un film sempre puntuale

Chissà quante volte abbiamo incontrato persone che nascondevano qualcosa, di buono o di cattivo, di materiale o immateriale. Forse abbiamo avuto anche dei sospetti, forse no; probabilmente queste persone sono apparse ai nostri occhi vagamente sfuggenti. Anche Christian Marclay nel 2005, dopo aver avuto la folgorante idea per il suo The Clock, deve aver destato dei sospetti. La sua idea era talmente grande, talmente stuzzicante per un artista come lui, da farlo diventare un freddo e prudente calcolatore, un equilibrista sulle corde del tempo: capace di tenere sotto terra quest’idea per due anni -così che nessuno potesse rubarla- e di riportarla alla luce nel 2007, quando infine gli si presentò l’occasione di lanciare sul mondo la sua bomba atomica. Marclay aveva inventato il film del tempo, o meglio, il film di tutti i tempi, il film dei film. Questo era il suo segreto. Trasferitosi a Londra da New York, Marclay chiese e ottenne i fondi per la produzione di un film-installazione che si svolgesse nell’arco delle ventiquattr’ore di un giorno, rimanendo sincronizzato col tempo del mondo reale. In poche parole, sedendomi a guardare The Clock alle cinque del pomeriggio, vedrò persone che sorseggiano tè o sbrigano le ultime pratiche in ufficio; se poi continuo fino alle 6 del mattino, vedrò nottambuli che tornano a casa e qualcuno che, rigirandosi nel letto, comincia a essere infastidito dalle prime luci dell’alba.

Marclay si era prefissato di selezionare migliaia di clip tratte da film e serie tv in modo da legare le immagini al tempo reale, mostrando quasi sempre un orologio o riferimenti al tempo: come persone attorno a una tavola a mezzogiorno, o coppiette davanti a un tramonto verso le sette di sera. Alla White Cube Gallery di Londra l’idea piacque e Marclay impiegò qualche mese per imbastire un provino che ne dimostrasse la fattibilità: perché non era affatto scontato che il materiale raccolto potesse coprire ventiquattr’ore in modo credibile e non forzato. Ma l’artista e i suoi sei collaboratori riuscirono nell’impresa, visionando centinaia di dvd e aprendosi così le porte per i successivi tre anni di lavoro. Nacque così The Clock, con una genesi indissolubilmente legata al tempo: tempo per essere ideata, tempo per selezionare le clip, tempo per montare e per superare gli eccessi di isteria che gli esperti del settore conoscono bene. Nel 2010, l’installazione finalmente debuttò al White Cube, destando interesse, acclamazioni e critiche.

E ci si chiede quale sia il senso di The Clock. Se sia un immenso gioco volto a indovinare da quale film sia tratta la clip, se sia un’opera atta a far parlare di sé per un poco, ma destinata a scomparire sotto le sabbie del tempo. Se sia un monumento dei nostri tempi, o un capolavoro senza tempo da preservare. La mia idea è che The Clock sia come la cometa di Halley: non la possiamo osservare tutti i giorni e quindi, quando passa, dobbiamo fiondarci in luoghi selvaggi per vederla bene. E stranamente nelle nostre città, i luoghi più selvaggi -adatti a vedere comete come quella di Marclay- sono i musei, i ruggenti musei di arte contemporanea che guardano sempre al domani. The Clock è un vortice che non si ferma mai, che ha inizio e fine in un loop che si mostra da mezzanotte a mezzanotte, nello stesso momento in cui il Big Ben di V per Vendetta esplode e, così facendo, dà inizio e fine alla giornata. E forse proprio il Big Ben è un po’ l’attore protagonista del film, col suo enorme orologio che appare nelle clip a intervalli imprevedibili, a significare la grandezza e l’inesorabilità del tempo. Ed è la bravura di Marclay, unita a quella del sound designer Quentin Chiappetta, a creare un’opera così varia ma insieme così omogenea, grazie a un suono equalizzato che pare appartenere tutto a uno stesso film.

I fiumi di parole spesi per parlare di The Clock non si contano, da chi l’ha definito “un capolavoro dei nostri tempi” come il The Guardian, a chi, inizialmente scettico, come Meghan O’Rourke del New Yorker, ne è rimasto poi conquistato, definendolo addirittura “un concentrato di suspence”. Parlando invece di premi, The Clock nel 2011 si è aggiudicato il Leone d’oro alla Biennale d’Arte di Venezia, consacrando Marclay al firmamento degli artisti più importanti del nostro tempo e, nello stesso anno, il premio “Best editing” (e come poteva essere altrimenti) ai Boston Society of Film Critics Awards. Premi artistici e tecnici per Marclay, e, per noi, un’occasione per riflettere sull’importanza che diamo al tempo, sia essa troppa o troppo poca, e sul tempo che passiamo davanti allo schermo di un televisore, di uno smartphone o di un tablet. Infine, per riflettere su quello che pare essere un immenso memento mori ma che, in realtà, è il più grande inno alla vita mai tradotto in immagini. Domina infatti il ciclo della vita, scandito, per scelta di Marclay, per lo più da fatti della quotidianità, da riti che accomunano diverse regioni del mondo . The Clock è il film del tempo, il film dei film; è in moto continuo e, a causa di questo, per vederlo, dovrete tenere d’occhio i calendari astronomici come fate con la cometa di Halley, perché l’opera di Marclay non ha tempo di fermarsi a lungo nello stesso luogo: oggi è a New York, domani a Parigi, dopodomani chissà. Nel frattempo, ci si può fare un’idea dell’opera sbirciando qualche video amatoriale su Youtube (ma non dite che ve l’ho detto io). Resta il fatto che nulla è pari all’esperienza vera, in sincronia col mondo, cioè l’opera vissuta in prima persona, vera fissazione dell’arte del nostro tempo. E chissà, magari un giorno passerete davanti al MoMA verso le tre del mattino, entrerete e vi ritroverete a chiacchierare con Cary Grant e Grace Kelly, con Natalie Portman e Ben Stiller, comodamente seduti su di un divano rigorosamente Ikea, come prescritto da Marclay stesso.

Purtroppo non si sa quando quest’opera tornerà in Italia, ma tenetevi pronti. Nel mentre, si può volare fino a Boston, dove The Clock sarà visibile fino al 29 Gennaio 2017. Se mai vi avanzasse un po’di tempo…

 

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