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Tenco e Gaber: due volti chiave agli albori della canzone d’autore

Marco Santoro, uno dei nostri più brillanti sociologi, qualche anno fa ha messo in evidenzia la centralità del mese di gennaio nella storia della canzone italiana: il 27 gennaio si è suicidato, durante il Festival di Sanremo, Luigi Tenco, dando il via a quello che lo studioso ha chiamato effetto Tenco, un lento movimento a spirale che ha portato lentamente, in maniera inequivocabile e irreversibile, alla legittimazione della canzone d’autore in Italia.

Da un punto di vista molto concreto, il fatto ha sconvolto il mondo dello star system musicale, che in quegli anni era ben rappresentato dal Festival; Tenco vi si era recato con la precisa idea di allargare gramscianamente il consenso pubblico sulla canzone d’autore, che già si proponeva come alternativa (più colta e più curata) della canzone popolare: anti-retorica, reale, con sentimenti vivi e veri. Inoltre per Tenco il Festival era un’occasione per affacciarsi al grande pubblico, un tramite per poter trasmettere a più persone possibili il suo punto di vista, i suoi sentimenti e le sue idee. Per poterle trasmettere alla società a lui contemporanea, di stampo industriale, l’unico sistema possibile consisteva proprio nell’utilizzare l’industria (non a caso Tenco incideva per Ricordi e Rca, due colossi dell’industria discografica).

Il cantautore genovese si presentò così in riviera con Ciao amore, ciao, brano caratterizzato da un insolito ritornello allegro, molto sanremese, scelto proprio per piacere al pubblico del Casinò; nonostante il ritornello, il brano è comunque molto lontano dalla retorica imperante di quegli anni, e si rifà ad un contesto reale e quotidiano, quindi vero, caratterizzato da noia, tristezza e malinconia, reali e percepibili, non solo ostentate.

La canzone non ha successo, si classifica al quintultimo posto, e non viene neanche ripescata dalla commissione apposita, che preferisce il più classico e retorico brano La rivoluzione, cantato da Gianni Pettenati. Queste furono proprio le motivazioni che spinsero Tenco al suicidio, come recita il biglietto trovato accanto al suo corpo: «Faccio questo […] come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione».

Il suicidio di Tenco ha messo sotto i fari dell’attenzione mediatica tutto il movimento di rinnovamento della canzone, cosicché tutta l’Italia in quel momento si accorse che il mondo della musica leggera non era così stupido come si poteva pensare: illustri poeti e intellettuali, come Alfonso Gatto o Salvatore Quasimodo, intervennero pubblicamente, anche in riviste specialistiche, sul suicidio di Tenco, legittimando culturalmente in qualche modo anche tutta la canzone d’autore; Fabrizio De Andrè inoltre affermò che l’anno successivo [1968] il pubblico scelse al Festival Canzone per te di Sergio Endrigo, segno che il suicidio di Tenco aveva dato una brusca virata anche ai gusti del pubblico.

Tre anni dopo [1970], nella nebbiosa Seregno (borgo della Brianza milanese), Giorgio Gaber esordisce con il progetto del teatro-canzone, una nuova forma di spettacolo in cui l’artista abbandona il successo televisivo e commerciale, di cui godeva grazie alle canzoni leggere, per proporsi completamente nuovo e rinnovato, e finalmente sé stesso. Esattamente come Tenco, anche Gaber aveva bisogno di esprimere i propri sentimenti, e di porsi al pubblico pieno di contraddizioni, di dolori e di incertezze, insomma, un uomo come tutti. Lo stratagemma fu l’invenzione del personaggio del Signor G, che in realtà era Gaber stesso, svuotato per la prima volta dell’immagine da puro uomo di spettacolo. L’innovazione formale era notevole: le canzoni venivano presentate a teatro, ed intervallate da monologhi allo stesso tempo divertenti e pungenti, che non mancavano di far sorridere, ma anche di far riflettere, e a volte scuotere gli spettatori. Gaber nel suo teatro-canzone riduce così il confine tra popolare e serio, e lo fa con qualcosa di completamente nuovo, riducendo anche il gap tra canzone e teatro, unendo le due forme espressive in una prospettiva decisamente rivoluzionaria. Il confine tra popolare e serio, tra alto e basso, grazie a Gaber stava iniziando ad assumere contorni sempre più sfumati, e tutta la carriera del cantautore milanese, in coppia con l’amico e intellettuale Sandro Luporini, abbatterà sempre di più questi confini, sconfinando talvolta nel dissacrante, ma sempre con la profonda intelligenza da acuto lettore delle cose del proprio tempo.

Giorgio Gaber muore il 1 gennaio 2003, e lascia in eredità un album da cantautore classico, Io non mi sento italiano, in cui rivisita alcuni suoi capolavori classici (su tutti Il dilemma e L’illogica allegria), ma in cui presenta anche alcuni brani inediti, particolarmente significativi, quasi un riassunto di tutta la sua carriera: un invito ad essere veri, reali e autentici, ad avere una propria opinione, e a scagliarsi contro chi vuole soffocare questo sacrosanto diritto dell’essere umano. Il disco è un inno all’umanità, il più profondo di tutta la carriera di Gaber.

Tenco e Gaber sono così accomunati dal destino che li ha visti andarsene nel mese di gennaio, all’inizio di un nuovo anno, ma le loro sorti sono state molto vicine anche a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, quando hanno permesso, con le loro innovazioni, che la canzone d’autore acquisisse autonomia e legittimazione culturale. Entrambi inoltre si sono posti allo stesso modo: due uomini diversi, ma entrambi reali, fragili, che cercavano di esprimere in musica e parole questa propria condizione di fragilità, per far sì che qualunque altro uomo si potesse in loro riconoscere. La rivoluzione del reale, dell’autentico e del sentimento vivo e vero sta quindi alla base di tutte le rivoluzioni formali della canzone d’autore, ed accomuna Tenco e Gaber, due volti chiave agli albori della nostra canzone d’autore più illustre.

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