Letteratura

SII SEMPRE UN POETA – CHARLES BAUDELAIRE

Un visionario, un gatto randagio in bilico tra la perfezione e la follia, un viandante che ha esplorato a suo modo le periferie dell’Essere: chiamarlo soltanto poeta sarebbe riduttivo. Il 25 giugno 1957 Charles Baudelaire dava alle stampe l’opera-manifesto di un sentire che sarebbe stato a posteriori definito “Decadentismo”, sintesi di una temperie connotata dall’incertezza metafisica e dal rifiuto di quelle categorie interpretative tali da inquadrare la vita e la Storia, hegelianamente parlando, entro una cornice di necessaria razionalità. Stiamo parlando de I Fiori del male, il tentativo di estrarre, dirà Baudelaire, la bellezza dal marciume, dal torbido e dal ripugnante che è la vita stessa nel suo caotico dispiegarsi. Una catarsi invero mai definitiva, perché mai capace di un reale successo, essendo la sola fictio poetica il luogo ultimo in cui poter rifugiarsi dalla disillusione e dal disgusto del creato.

In bilico tra perfezione e follia. La complessità della poetica baudelairiana deve essere ricondotta all’incessante oscillazione dell’autore tra due poli tra loro antitetici: l’Ideale e la perdizione. La novità consiste nel vedere in quest’ultima non una mera diminuzione di Bene, non un’accidentale devianza, ma un’esperienza necessaria dello spirito umano. Nella perdizione l’uomo si allontana da Dio, lamentandone la distanza ed esperendo un senso di pentimento, ma per un perverso capovolgimento essa va ad assumere le sembianze di una dolce dimora che a un certo punto occorre convenientemente, per così dire, iniziare ad arredare in vista della risalita. Deiezione ed elevazione si compenetrano e talvolta si confondono, in un vortice in cui l’Inferno rischia di essere confuso con il Cielo e quest’ultimo, pur nella beatitudine che sa offrire, si mostra al fine alquanto sterile ed insoddisfacente. Un contenuto forte, quello delle poesie de I Fiori del male, che valsero all’artista una cattiva reputazione e una causa giudiziaria per oscenità e attentato alla morale pubblica. Una vicenda simile era toccata qualche tempo prima al Madame Bovary di Flaubert, con la differenza che in quel caso il pubblico scandalo aveva finito col rendere il romanzo ancor più popolare.

Ma esattamente, perché Baudelaire scandalizza? Ebbene, i suoi versi come la sua prosa (che per lui avevano pari dignità – soit toujours poète, même en prose, ebbe a scrivere una volta) mirano a descrivere con un realismo viscerale i frammenti di una realtà disgregata, disarmonica, che solo la poesia, concepita come intuizione pura, estatica, può ricondurre ad unità. Una realtà che è cronicamente inquinata dal vizio, dalla lussuria e dalla bruttezza, in cui il consorzio umano ha rivelato la sua fallacia – lo squallido contesto industriale della Parigi dell’epoca gliene dà conferma – e in cui lo sballo della ricerca di Dio si risolve in un hangover a dir poco debilitante. I riferimenti mai velati alla sessualità e alla droga, uniti ad una certa fascinazione per il Demonio, rendono Baudelaire una personalità detestata presso i membri della borghesia francese, che vedono in lui un reietto, un randagio, insomma un individuo da evitare. Il suo patrigno, il generale Aupick, che lo voleva un homme utile (e cioè un avvocato, un magistrato o magari un funzionario statale) è il primo ad allontanarlo, non così sua madre, nei cui confronti Charles prova sin da bambino una commistione di amore e odio.

I Fiori del male si aprono con la sezione denominata Spleen et ideal, incentrata sulla dicotomia di cui sopra; segue una seconda sezione chiamata proprio Les Fleurs du mal. Vi è poi la Révolte, i cui componimenti testimoniano la tenace lotta del poeta (la sua rivolta, appunto) contro le tentazioni mondane ma anche contro l’infelicità, ostacolo alla realizzazione spirituale. Il peso dei vizi connaturati alla natura umana, tuttavia, è insormontabile, il che spiega il passaggio alle sezioni finali Le vin e La mort. L’ebbrezza avvolgente del vino consola in attesa della morte, con la quale si vuol chiudere in definitiva con il mondo nella speranza di trovare, al di là di esso, una dimensione nuova (“au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau!”), sottratta ai limiti contingenti e alla privazione del Bello.

Che cos’è in fondo l’amore stesso, dice Baudelaire, se non l’illusione di un altrove migliore? L’amore ed il sesso non sono però la stessa cosa, il primo esige dalla donna una grazia interiore ed esteriore, il secondo si può praticare soltanto con donne stupide. Ed ecco il riaffiorare, per l’ennesima volta, di una personalità scissa, contraddittoria, maledetta dal divino prima che dagli uomini.

La maledizione in questione è stata storicamente gravosa per Baudelaire: dopo aver cercato Dio nei bordelli e Satana all’ombra di una croce, Charles morirà nel 1867 a causa di una paralisi indotta dalla sifilide, contratta forse all’età di ventun’anni. In realtà vegeta per un anno (1866), poi si spegne.

Al “vero Dio della poesia” (definizione di Rimbaud) dedichiamo questo articolo, con l’auspicio che la sua produzione artistica possa oggi essere oggetto di una partecipata e non retorica reviviscenza.

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