Cultura

Scrittori emergenti. Quattro chiacchiere con Vincenzo di Pietro

di Erica Gazzoldi

 

Esordire con la propria opera prima è come mettere una barca in mare: significa attuare la sua ragione di esistenza, ma tenendo conto dei venti e delle correnti. E –soprattutto- delle corazzate che costellano le acque editoriali. I giganti del libro, come Mondadori, Feltrinelli e Rizzoli, signoreggiano con pacata sicurezza sul mercato, sfornando primizie non sempre eccelse. Fra ricettari, capricci letterari di questo o quel VIP ed improbabili prove narrative di aristocratici rampolli, può però capitare di imbattersi in romanzi succosi, pubblicati da piccole case editrici. È il caso di Vincenzo Di Pietro e della sua ultima opera, Senza te (Milano, 2011, Leone Editore). Trentasettenne, pescarese, con una moglie ed un figlio, Vincenzo conta già sei pubblicazioni nell’ambito della narrativa (vedi box). Una passione precoce: “Ho scritto il mio primo romanzo a quattordici anni, con una penna a inchiostro blu. Trecentocinquantasei pagine. L’ho portato a un editore, il primo che ho trovato e lui mi ha detto: ‘Bravo, ora riscrivilo a macchina, perché non si capisce un tubo’. Pensava di scoraggiarmi: una settimana dopo aveva il dattiloscritto (nel 1988 non avevo nessun PC domestico). Me l’ha pubblicato e io mi sono ubriacato assieme a mio padre con una bottiglia di spumante di serie C.” Fu l’inizio di una lunga avventura, da casa editrice a casa editrice: “Per quel che riguarda gli editori, più che altro sono stati loro a cambiare me. Nel senso che, fino all’incontro con Leone Editore, la ‘tecnica’ è sempre stata quella che prevedeva la pubblicazione e il successivo abbandono delle copie nei polverosi magazzini della casa editrice, a meno che io in persona non vendessi tutte le mille, millecinquecento copie stampate. Leone, invece, non si dà pace se non ha messo in campo tutte le iniziative editoriali e di promozione che gli vengono in mente. Gli dà enormemente fastidio tenere i romanzi accatastati nella sede!”

Come avviene spesso agli autori, Vincenzo ha una propria “città del cuore”: Pescara, che gli ha dato i natali. Questo centro, in fatto di urbanistica, gode di una nomea non proprio eccelsa: è di fondazione recente, nato in un luogo dalla lunga tradizione portuale, ma non propriamente insediativa; vi abbondano casermoni e palazzine; fra gli arredi urbani  –dulcis in fundo– una statua a forma di elefantino, amatissima dai bambini e da qualche bellospirito in cerca di foto-ricordo. Ma la Pescara di Vincenzo è un’altra: “È uno spazio salvifico. La faccenda dei casermoni è un po’ esagerata. È una città magnifica, con un fiume serpeggiante, il mare e la montagna che quasi si accarezzano. E poi le case periferiche sono molto evocative, così come le strade cunicolari tra i palazzi storici. È la mia piccola ‘Berlino’, anche se il paragone non regge. Una città da romanzo urbano, metropolitano e pop, insomma.” Soprattutto, è una città giovane, in ogni senso. In Senza te dominano il mondo universitario e la vita notturna delle discoteche, delle feste in spiaggia, sui pochi tratti risparmiati dagli stabilimenti balneari. Il teatro più appropriato per una storia d’amore come quella fra Ines e Marta, le protagoniste del romanzo: una vicenda che si muove fra un appartamento studentesco, i locali alla moda, il grigiore dell’università “Gabriele D’Annunzio”.

Inevitabile, come per ogni scrittore appassionato, che la vita si mescoli con la letteratura. In Valerio Righi, personaggio di Senza te, si incarna il ruolo del romanziere come compositore e ricompositore di esistenze umane, forse ladro di vita, forse rubato egli stesso dalla vita. Perché il diaframma tra chi scrive e chi legge è sottile quanto una pagina. Già personaggi come Madame Bovary e Don Chisciotte ci hanno mostrato quanto sia infida la trappola dell’immaginario, quanto sia affascinante e pericolosa quella “terra di nessuno” in cui si entra aprendo un romanzo. Anche Ines vi si perderà. E, fra amori-fantasma, reminiscenze dei supereroi infantili e false certezze matematiche, l’unico appiglio concreto resterà lei, Marta.

Interessante l’impiego, da parte di Vincenzo, della musica pop: Paola Turci, Fabio Concato, i Wham e la sigla di “Goldrake” tessono un’ideale colonna sonora. Fanno da contrappunto alle situazioni dei personaggi, anzi, li modellano. Come spiega l’autore al termine del romanzo, le due studentesse sono nate proprio come fantasmi aleggianti tra le note delle canzoni preferite, nell’appartamento da lui diviso con la moglie. Il figlioletto è Valerio. Un altro Valerio: non per caso. Di nuovo, la vita e la letteratura si scambiano i ruoli. D’altronde, l’unica, vera ragione per sfidare le corazzate editoriali e scavare una nicchia alla propria opera è questa: la scrittura è pelle e carne dell’esistenza. Ciò costituisce la differenza tra il ghostwriter, la celebrità di turno che scribacchia un libro, la paccottiglia libraria da Autogrill da un lato e gli scrittori autentici dall’altro. I “Valerio Righi” che solcano l’arcipelago dei piccoli editori, che appaiono e scompaiono su un filo d’inchiostro, che di una città sanno fare “uno spazio salvifico”.

 

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