CulturaRiflessioni

Proibizionismo: il nobile esperimento (fallito)

1776: Nascono gli Stati Uniti. Appena tredici anni dopo sorge la prima società di temperanza. Il nord America a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo è un mondo contadino, per lo più composto da protestanti che ormai si sentono parte di quel non-più-nuovo mondo. È un gruppo di persone dalla bassa scolarizzazione e dalla vita umile e timorata. Sono bianchi e credono che il male sia incarnato da tutto ciò che è diverso. Sono sostanzialmente gli stessi che poco dopo daranno vita a quella che è tra le più tristi pagine della tanto osannata America, ovvero il Ku Klux Klan (che, tra le altre cose, si definiva proibizionista). Ma questi gruppi intransigenti non hanno troppa presa sulla totalità della popolazione, soprattutto per l’avversione, anche religiosa, dei gruppi cattolici e dei protestanti luterani di origine germanica. È proprio quest’ultima una discriminante che lascerà il segno. Se la Grande Guerra è ricordata per essere il primo vero conflitto dall’ampio respiro globale; se è ricordata per l’uso di armi nuove, i gas fra tutti; se è ricordata, soprattutto dagli italiani, per essere stata a quasi tutti gli effetti la quarta guerra d’indipendenza, non si possono scordare gli effetti. Oltreoceano, mentre l’Europa cadeva a pezzi, i gruppi moralizzatori e fondamentalisti prendevano sempre più piede grazie anche, e forse soprattutto, allo svuotamento di potere dell’uomo tedesco. Come preannunciato, tra i forti sostenitori della libera vendita dell’alcol c’era la comunità tedesca che, stereotipi a parte, è una buona consumatrice di alcolici leggeri come, neanche a dirlo, la birra. Certamente un conflitto mondiale dove il tuo paese d’adozione combatte contro il tuo paese d’origine non fa bene alla tua immagine, soprattutto tra quelle classi sociali che ti reputano nient’altro che un immigrato. Facile capire quindi che le pressioni di una parte della popolazione, divenuta sempre più grande e quindi di un certo peso politico, che si scontra con un nemico debole e malvisto dalla pubblica opinione, riescono ben presto a fare il loro gioco.

Siamo quindi nel 1919 quando viene legiferato il diciottesimo emendamento della costituzione americana, proibizionismo_2il cosiddetto Volstead Act. Andrew Volstead era un avvocato del Minnesota divenuto deputato nel 1903. E quindi? La cosa divertente è sapere che era a sua volta, date le premesse fatte poc’anzi, immigrato dalla Norvegia; ma immagino che si chiuda un occhio in questi casi. La “sua” legge proibisce non solo il consumo, ma anche la produzione e l’importazione di alcolici. La vita dei beoni viene sconvolta. Ed è qui il punto cruciale. I beoni. Chi sono questi ubriaconi? Sono uomini, sono lavoratori e sono spesso mariti. Questo è il particolare che fa capire il perché del successo delle società di temperanza: per ogni marito, salvo famiglie moderne, c’è una moglie che deve badare ad un bambinone che sotto gli effetti dell’alcol arriva ad essere violento. Molti maltrattamenti e abusi dopo, la società si sveglia col piede sbagliato e decide che non è l’educazione il fulcro del discorso, bensì gli alcolici. È una società industriale e in buona parte povera, quella americana di inizio ‘900. Emergono i primi ricconi come Rockfeller, ma la popolazione è spesso contadina, fuori dalla città, od operaia, all’interno. È il periodo di Boston e Detroit viste come fucine d’America. E poi abbiamo New York. La “grande mela” mostra in questo periodo il suo marcio.

Fatta la legge, trovato l’inganno – si dice. E infatti di lì a breve si sviluppa in maniera incontrollata una nuova forma di criminalità organizzata. Certo, non è un fenomeno generato da un singolo fattore. Sono anni difficili in Europa. La fine della guerra significa dover ricominciare dalle macerie. L’arrivo del fascismo in Italia, e pian piano nel resto d’Europa, significa emigrazione verso lidi più felici. E poi ci sono i poveri di sempre, quelli in cerca di un posto migliore, quelli in cerca del tanto famigerato sogno americano. È il caso di molti italiani, soprattutto del sud ma anche del Veneto. Si sa che ogni mondo è paese e quindi, in una società chiusa, una comunità che difficilmente si adatta, come quella italiana ai tempi, tende a ghettizzarsi. Nasce Little Italy, oggi più un’attrazione che altro, l’incubatrice di dissapori sociali che sfociano nella collettivizzazione criminale. La mafia italo-americana si genera da spinte interne, malcontento e scarsità di risorse, e spinte esterne, gli amici siciliani cercavano di aprire un franchising oltreoceano. Incredibilmente la storia trova una funzione a quasi tutto e paradossalmente quello che è un male, e lo rimane sempre e comunque, diviene un “bene” durante la Seconda guerra mondiale quando Lucky Luciano, uno dei più famosi e potenti boss della mala newyorkese, aiuta l’OSS, l’agenzia dei servizi strategici, a mettere in piedi l’Operazione Husky: lo sbarco in Sicilia. Tornando a noi: dove c’è un divieto, c’è un mercato nero e questo viene ben presto gestito dalla mafia italiana, nonché da quella irlandese. Non mancano neanche i piccoli gruppi, vere e proprie bande che presto o tardi si ritrovano le une contro le altre. La criminalità sguazza nell’oro in quel periodo. Ha potere da vendere. Anzi, da comprare. Corrompe tutti, polizia e politici. È facile farlo, tutti vogliono bere, non per niente il vino e la birra sono presenti da millenni nella società umana; senza dimenticare che in natura certi animali si ubriacano volontariamente con gli zuccheri di alcune piante. La mafia lo sa e sa come non farsi beccare. Una mazzetta qui, una carneficina là e l’impero cresce fino a far nascere veri e proprio miti negativi, quali Al Capone. In sintesi: il giro d’affari dell’alcol di contrabbando è stato stimato in circa 3 miliardi di dollari dell’epoca, ovvero il 3% del PIL.

Mentre il crimine riempiva le proprie casse, si svuotavano quelle del governo federale: fino al 14% di entrate in meno su base annuale. 14% significa quasi 1/6 del gettito fiscale, una fetta non indifferente. Questo è il lato del “lucro cessante”, detta come se fossimo in un manuale di diritto privato. Il “danno emergente” è invece quello dato dalle spese vere e proprie per mettere in opera la macchina proibizionista: agenti, dipartimenti (Bureau of Prohibition), burocrati. Un’opera imponente. E più aumentava la criminalità, più crescevano le spese per contenerla. Una montagna di soldi che però non bastava mai dato che le famiglie criminali diventavano sempre più potenti. Sono infatti gli anni del mafioso 1200px-Al_Capone_in_1930stereotipato che ancora oggi persiste nell’immaginario pop, con il gessato e il fiore all’occhiello in puro stile Capone, Marranzano o Masseria.

Nonostante ciò, ci vollero ben 13 anni affinché si arrivasse a una soluzione, o quantomeno a un tentativo di arginare perdite sempre più ingenti e una criminalità dilagante. Non fu di certo una soluzione che risolse tutte le questioni dato che la criminalità cambiò volto e cominciò a occuparsi sempre di più di droga. Quest’ultima, tra l’altro, sarà il soggetto delle lotte anti-proibizioniste in seguito alle leggi del 1937 contro oppiacei e derivati della cannabis. Notare come il “proibizionismo del terzo millennio” sia una battaglia ancora aperta nel vecchio continente e sul tavolo delle trattative negli USA. In caso steste facendo i conti, sì, sono 80 anni.

Siamo dunque arrivati al 1933, il diciottesimo emendamento viene emendato e viene promulgato il ventunesimo, detto Blaine Act, che ristabilisce la circolazione dell’alcol.

La storia, nell’idea nietzschiana e non solo, è un eterno ritorno, un serpente che si mangia la coda, un uroboro. C’è quindi da imparare dal passato, ovvero il più grande manuale che esista. La lunga, e comunque breve, storia umana ha già visto molti dei cambiamenti che oggi pensiamo nuovi; ha già vissuto in qualche modo quello che oggi ci sembra rivoluzionario. I soggetti forse erano diversi, il tipo di rivoluzione era diverso, ma il fulcro rimane lo stesso. Quando si proibisce qualcosa, e faccio riferimento alla realtà di oggi e quindi alle droghe, si finisce per fornire un’aura di ribellione che su un certo pubblico fa presa. Gli esperimenti a sostegno di una tale farneticazione ci sono (leggasi il numero 152 di Inchiostro, l’articolo Si vis pacem, para bong) e mi riferisco al caso del Portogallo. Ma se vogliamo essere meno filosofici e pensare meno alla morale e più ai fatti concreti, rifacciamoci ai dati economici. Gli USA decisero che per dar voce a una comunità lacerata, soprattutto quella delle donne che subivano soprusi, servisse togliere qualcosa invece che rieducare qualcuno. I discorsi sulla violenza di genere oggi sono più che mai vivi, e a ragione, ma non è intenzione di questo articolo trattarne. Ma è comunque importante sottolineare come tutto in una società complessa sia strettamente interconnesso, e maltrattare, ghettizzare, imporsi su una parte di essa, per quanto piccola e insignificante possa sembrare, significa creare schieramenti che possono fomentare dissidi che, invece, potrebbero essere curati da semplice cultura. Estremizzare un discorso significa dargli peso, dargli sostanza, creare in certuni un gusto dell’illegale, una voglia irrefrenabile di andare oltre le regole. Un comportamento che può essere risolto semplicemente lasciando a tutti la libertà di scegliere di che morte morire. D’altronde anche Eva è stata attratta dal frutto proibito e a pagarne le spese, se ci si crede, è l’umanità tutta.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *