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“Nella solitudine dei campi di cotone”: erotica di un “deal”

“Un deal è una transazione commerciale che si basa su valori proibiti o severamente controllati, e che si conclude in spazi neutri, indefiniti e non previsti per questo uso”.

Un “deal” è il meccanismo base di una relazione tossica, di un’interdipendenza inaffidabile in cui ognuna delle parti vorrebbe essere sicura di poter sopraffare l’altra senza rischio per la propria persona. Ma questo non è possibile e quindi bisogna studiarsi, affrontarsi e scegliere se rimanere o scappare. Come fanno gli animali, come fanno i disperati: “Per questo mi avvicino a lei, nonostante sia l’ora in cui di solito l’uomo e l’animale si avventano ferocemente uno sull’altro, mi avvicino, io a lei, le mani aperte e i palmi rivolti verso di lei, con l’umiltà di chi offre davanti a chi compra, con l’umiltà di chi possiede davanti a chi desidera”

Un “deal” è il meccanismo alla base – direi meglio: il meccanismo scatenante – di “Nella solitudine dei campi di cotone”, testo di Bernard-Marie Koltès portato sul palco del Teatro Out Off con la regia di Roberto Trifirò. Un dramma essenziale nella sua struttura (due personaggi si incontrano sul limitare della notte) che pure sa farsi metafora dolorosamente lirica dell’umanità nella sua essenza, fuori dal tempo e dalle congiunture storiche.

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Con la grazia cruda che accomuna tutte le opere di Koltes, “Nella solitudine dei campi di cotone” non si concede alle facili letture, utilizza un linguaggio denso e si nasconde dietro una raggera di interpretazioni. Ma ci sono magnitudini che è difficile ignorare anche quando non vengono esplicitate.

Il Dealer e il Cliente (due fantastici Stefano Cordella, Michele Di Giacomo) sono due uomini che a malapena conoscono il proprio ruolo. Anzi: sono costretti a raccontarselo, a implorare di esserne investiti per poter sperare di riconoscersi da soli. Al limitare della notte, in una strada deserta o nella solitudine dei campi di cotone, incrociati per caso ma in realtà forzati ad incontrarsi, sono sacerdoti inconsapevoli di un culto di cui non conoscono le regole, costretti a recitare un rito dei cui meccanismi hanno perso memoria.

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Immaginate un prete che, in piedi dietro l’altare, non sappia più a chi appartenga il sangue e a chi la carne e preso dallo spavento tenti ora di venderlo ora di comprarlo: Koltes è maestro nel dare voce al turbamento, al non poter esistere se non nei margini inospitali. Martire delle nuits fauves degli intellettuali maledetti fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, morto di AIDS come tutti troppo presto, è stato uno dei pionieri dell’educazione alla diversità o perlomeno della denuncia della sua esistenza.

Così anche “Nella solitudine dei campi di cotone” fa della propria liminalità una forza, diviene una metafora capace di parlare di un socius senza tempo. Non un semplice homo homini lupus, ma una rete complessa di repulsione, frustrazione e attrazione. Il “deal” non è (solo) un rapporto di scambio, è un rapporto universale e universalmente valido, erotico nella sua essenza perché erotiche sono le sue controparti: umane, fragili, capaci di definirsi soltanto nei parametri di un rapporto e consci che in quel rapporto dovranno per forza perdere qualcosa.

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