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L’Esercito Siriano Libero, l’implosione dei ribelli

Photo credits: AFP

Il conflitto siriano, cominciato come un nuovo episodio in una lunga serie di Primavere Arabe, si è trasformato in una guerra nella quale si perde ormai il conto dei fronti che sono stati aperti. Da un lato, c’è ci lotta per la propria effettiva autodeterminazione: i Curdi siriani del Rojava e i Peshmerga iracheni del KDP. Dall’altro c’è chi invece sfrutta l’occasione per liberarsi dei propri confini percepiti come imposti e ingiusti, i Curdi turchi. In Siria e in Iraq, l’implosione delle strutture statali ha creato una galassia di fazioni chiamate in modo generale “gruppi ribelli”. Darne una definizione generale semplifica in effetti le cose, ma non tutti si ribellano contro la stessa cosa e le loro rivendicazioni non sono sempre le medesime, in alcuni casi non sono nemmeno analoghe.

Nel 2001, la Siria passò da un al-Assad all’altro, uno dei primi eventi della transizione fu indicato come la Primavera di Damasco, segno di un cambiamento positivo operato da Bashar rispetto alle misure ereditate da Hafiz. Il regime, posto sotto un’elevata pressione economica sia interna che esterna, decise di operare in modo da offrire delle risposte alla popolazione alleggerendo le misure di chiusura politica precedentemente imposte. Le istituzioni di rappresentanza erano deboli, tutti ne erano consapevoli, ma il loro uso sembrava un mezzo efficace per creare una parvenza di transizione verso una realtà più democratica. Tuttavia, Bashar rivelò presto per la sua natura non così dissimile da quella del padre. La Primavera, simboleggiata dall’autorizzazione a manifestare pubblicamente nelle piazze il proprio dissenso al governo, si concluse con un’ondata di arresti che comprendevano sia i militanti che leader dei gruppi sociali dissidenti, fino ai vertici del governo, ministri e capi di partito. La condizione di clandestinità, imposta dall’irrigidimento governativo, fu rifiutata dagli stessi manifestanti, che preferivano nonostante tutto un dialogo più democratico anche se difficile. Alla violenza si rispondeva con il rifiuto dell’ideologia accentratrice del potere e una richiesta di protezione dei diritti umani. Ufficialmente si chiedeva uno “Stato moderno” o quantomeno un contratto sociale tra governanti e governati. Tuttavia, tali richieste rimanevano deboli sia per una relativa forza del governo, sia perché i richiedenti non avevano molti strumenti a disposizione per potersi esprimere. I giornali, e i media in generale, erano severamente controllati, l’associazionismo e i raggruppamenti civili erano vietati e l’uso delle piattaforme informatiche non era ancora considerato. Gli atti di esplicita protesta furono via via ridotti a causa dell’intervento delle autorità, obbligate a mantenere un controllo ferreo, per la paura diffusa che una qualsiasi manifestazione popolare crescesse in modo incontrollato.

Cosa che di fatto avvenne dieci anni dopo, nel 2011, nell’anno di svolta della Siria. La frustrazione dovuta ad una mancanza generalizzata del rispetto dei diritti umani, le condizioni economiche aggravate dalla siccità, i redditi sempre più bassi e un restringimento generale delle libertà, senza contare che le manifestazioni, dapprima pacifiche, ricevevano per tutta risposta l’arresto dei capi e l’uccisione dei partecipanti, crearono in tutta la Siria una spirale di rabbia montante.

La rottura definitiva tra Stato e popolazione avvenne in due tempi. Il primo, il 29 luglio del 2011, quando il generale Riyad al-As’ad, insieme ad un gruppetto di militari, disertò per protesta l’esercito regolare costituendosi come una nuova entità: l’Esercito Siriano Libero (ESL, o come nel suo acronimo inglese FSA, Free Syrian Army). In un video diffuso su internet (diventato nel frattempo un metodo effettivo di opposizione al regime), il generale invitava chiunque volesse partecipare alla vera “Rivoluzione siriana” a entrare nell’ESL disertando le file delle truppe regolari, e quindi fedeli ad al-Assad, o ad arruolarsi da civili. L’ESL però non era, già dal principio, un vero e proprio esercito, ma intendeva usare la propria posizione per dare effettivo avvio alla transizione pacifica verso un cambio di regime, aprendo alla Siria la via verso la democrazia. Era un gruppo politico, capace di mettere insieme le esigenze di numerosi siriani, soprattutto delle opposizioni in esilio. Per distinguersi dall’ordine vigente, l’ESL decise di riesumare la bandiera a strisce orizzontali verde-bianco-nera con tre stelle rosse nella fascia centrale, quella stessa bandiera che fu creata per festeggiare l’indipendenza dalla Francia nel 1930. Un simbolo chiaramente distinto dall’altra bandiera, quella a strisce rossa-bianca-nera con due stelle centrali, ereditata dalla Repubblica Araba Unita riconosciuta come simbolo unico e inconfutabile della repressione.

Il secondo tempo avvenne due mesi dopo. Grazie al successo riscosso dall’ESL, si creò il Syrian National Council, SNC, che aveva proprio il compito di riunire le opposizioni al di fuori della Siria, soprattutto in Turchia, e di presentarsi come un fronte unico, anche se non istituzionale, capace di stringere alleanze, accettare gli aiuti e il sostegno degli altri Stati.

La presenza di questi due gruppi dichiaratamente militari anche se non ancora belligeranti, si combinò con un aumento delle tensioni e dell’aggressività nei confronti di coloro che erano ancora indifesi e sul territorio siriano. Un’aggressività che portò allo svilupparsi autonomo di una rete di Local Councils o Revolutionary Councils, gruppi informali attraverso i quali passavano prima le informazioni e poi gli aiuti umanitari. Se il SNC serviva per avere delle informazioni dettagliate e precise su quanto avveniva sul territorio siriano, i consigli locali erano coloro che reperivano queste informazioni, per diffonderle poi trasmettendole ai media internazionali presenti, alle persone e ai rappresentanti militari.

SNC ed ESL non furono da subito soggetti belligeranti, ma la loro organizzazione, informale certo, permetteva comunque di avere una qualche sorta di gerarchia piramidale, condizione primaria per uneventuale negoziato. Gli attori internazionali sfruttarono proprio questi gruppi per mettere pressione sul regime siriano attraverso un gioco diplomatico. L’Inviato Speciale delle Nazioni Unite in Siria, Kofi Annan (nonché ex-Segretario Generale), presentò infatti un piano in sei punti che avrebbe potuto garantire una transizione pacifica. A quel tempo però, tra il 2011 e il 2012, nessuno aveva ancora molta voglia di risolvere la situazione, nemmeno a livello diplomatico. Russia e Cina si opponevano al presupposto di base della transizione pacifica, che prevedeva l’allontanamento di Bashar al-Assad dalla posizione di comando. Putin, infatti, non voleva perdere l’unico Stato costiero nel Mediterraneo che gli aveva permesso di mantenere attiva una base militare. La permanenza al potere di al-Assad derivava anche da un rifiuto netto degli Stati Uniti di coinvolgere il proprio esercito di terra, memori forse di un 2003 iracheno non proprio felice. Mentre gli alleati europei erano molto titubanti all’idea di un intervento diretto, visto che la situazione in Libia stava già cominciando a dimostrare i suoi disastrosi effetti. La possibilità di sfruttare lo stesso ESL come fronte unito contro le truppe regolari, finanziato e rifornito di armi della Coalizione, non piaceva né a Russia né alla Turchia. La Lega Araba, presente nella Coalizione Internazionale, non fu capace di esprimere una posizione univoca, dato che emersero tutte le sue contraddizioni e fratture interne. Solo il Qatar si espresse in modo esplicito e favorevole all’intervento, annunciando che in mancanza di un tale evento avrebbe comunque armato i “ribelli”siriani.

Fallito dunque il tentativo diplomatico iniziale, la volontà militare dell’ESL iniziò a prevalere sul non interventismo del SNC (che si è poi trasformato in Supreme Military Council, SMC, dopo lo scoppio del conflitto). Le prerogative belliche si delineavano anche in corrispondenza dell’arrivo di soldati da altri fronti e di un flusso in entrata di armi al mercato nero e di supporto logistico clandestino. Le tensioni interne tra SNC e ESL, l’incapacità di interloquire a livello internazionale, i continui e brutali attacchi da parte del governo causarono una specie di implosione nella quale si perse quella organizzazione chiara e gerarchica, pur sempre debole ma affidabile, in un infinito moltiplicarsi di fronti e resistenze.

Il conflitto ha dunque attirato degli sponsor da entrambe le parti. L’opinione degli studiosi vede proprio in questa peculiarità l’impossibilità di risolvere la questione: nessuna delle due parti era in origine capace di sopraffare l’altra, ma la situazione è rimasta invariata perché entrambe hanno iniziato a combattere una guerra per procura (proxy war) i cui andamenti sono, in parte, decisi altrove.

La forza dell’ESL è notevolmente cresciuta grazie al sostegno pervenutogli dai droni americani, i quali però non sono degli alleati veri e propri (anche se sono dichiaratamente anti-Assad e anti-ISIS), rispetto agli arsenali dei “lealisti”, i quali ricevono dal 2014 un sostegno russo importante nella lotta all’ISIS (che viene usato però anche contro i gruppi di opposizione). Questo schieramento è quello più evidente, ovviamente devono essere aggiunti tutti gli interessi degli attori regionali, che saranno analizzati in un altro momento. Nonostante tutti gli sponsor, la disuguaglianza resta ampia, tanto che alcuni combattenti siriani hanno recentemente iniziato a ritirarsi dal fronte perché scoraggiati. Altri soffrono meno la disparità di forza rispetto all’impossibilità di creare alleanze solide, non sapere di chi potersi fidare in una lotta così fitta e senza quartiere è diventato, da un anno circa, un deterrente per i combattenti.

A questo quadro già abbastanza complesso, bisogna aggiungere l’arrivo dell’ISI, lo Stato Islamico dell’Iraq, travalicato in Siria nel 2013, per diventare l’ISIS, nell’ottica di costruire il Califfato universale sunnita. Da un anno però, la strada del modus operandi terroristico era già stata aperta dal Fronte al-Nusra, ramo indipendente di al-Qaida impiantato in Siria. Se già il comando dell’ESL era poco gerarchico e molto orizzontale, l’aumento dei nemici ha provocato la frammentazione ulteriore del fronte in una miriade di compagnie e brigate molto diverse tra loro soprattutto in ragione della zona in cui si sono sviluppate. Un’indagine di Limes, ha permesso la mappatura dei combattenti dell’ESL per regione: 7 brigate intorno ad Homs, 14 tra brigate e compagnie nell’area compresa tra Hama e Idlib, 5 nella città di Idlib, 5 a Damasco e 2 ad Aleppo (l’instabilità della situazione non permette l’affidabilità completa di questi dati del 2012, la BBC ha realizzato una versione aggiornata ma meno dettagliata nel 2013).

Questa grande frammentazione ha però in qualche modo cambiato la natura dei gruppi. Non sono più solo unità belligeranti che combattono contro un invasore (bensì due in realtà), nel loro piccolo, sono anche e soprattutto le unità di soccorso attraverso le quali è possibile distribuire gli aiuti umanitari, mentre altre sono esclusivamente impegnate nella liberazione delle città come Aleppo e Homs. I compiti si diversificano anche per la necessità di proteggere le fonti di reddito e potere, soprattutto i pozzi di petrolio.

Bisogna tenere conto anche di un altro aspetto: la galassia dei “ribelli” non è costituita unicamente dalla rete informale che fa capo all’ESL e al SMC, a cui partecipano anche i Curdi siriani, turchi e iracheni, ma esiste tutta una serie non coordinata di gruppi che costituiscono il Fronte Islamico, coloro che vorrebbero creare in Siria uno Stato confessionale, uno Stato Islamico effettivo, per come definito dal Corano. Lasciando i dettagli politico-religiosi per la prossima volta, lo Stato confessionale siriano non sarebbe in niente simile a quello che il Califfo al-Baghdadi vorrebbe imporre a livello universale. Infatti, in questo Fronte non sono presenti l’ISIS o al-Nusra, ma è presente al-Qaida e alcuni suoi grupposculi affiliati. Alcuni sostengono addirittura che una parte del Fronte al-Nusra, non sia entrata nel binomio Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, ma abbia preferito rimanere nelle fila dei “ribelli” appunto.

La complessità della situazione è stata spesso ridotta a una semplice contrapposizione tra il governo siriano e i ribelli, alla quale partecipa incidentalmente anche lo Stato Islamico (cosiddetto). Il termine “ribelli“ in questo caso è solo fuorviante. L’ESL e il Fronte Islamico combattono effettivamente lo stesso nemico ma per un fine completamente diverso, non sono uniti, non sono gli stessi ribelli, una volta ottenuto lo spodestamento definitivo del Raìs non si prenderanno per mano per costruire la nuova Siria. Tutt’altro, più di uno studioso vede nella grande frammentazione la pericolosità estrema di una seconda fase del conflitto che giocherà proprio sulla differenza di prerogative e su quanto si desidera costruire sulle macerie del regime e della Siria stessa.

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