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La fiaba “scortecata” di Emma Dante

Uno spettacolo basato su una favola del Seicento e interpretato da due uomini che vestono i panni di due vecchie sorelle litigiose apparentemente non si presta ad affrontare in maniera profonda tematiche attuali e complesse come il rapporto con il corpo e con l’immagine che abbiamo di noi stessi, eppure la capacità di Emma Dante consiste proprio in questo: saper adattare un antico racconto proponendo seri spunti di riflessione senza rinunciare a una comicità acuta e travolgente.

La Scortecata, scritto e diretto da Emma Dante, viene rappresentato per la prima volta al teatro Caio Melisso durante l’ultima edizione del Festival di Spoleto e propone una rielaborazione di La vecchia scortecata, decimo racconto de Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de peccerille di Giambattista Basile (1566-1632). “Lo cunto de li cunti noto anche col titolo di Pentamerone (cinque giornate) – ricorda la regista- è una raccolta di cinquanta fiabe raccontate in cinque giornate. Basile crea un mondo affascinante e sofisticato partendo dal basso, dalla cultura popolare, dal dialetto napoletano nutrito di espressioni gergali, proverbi e invettive popolari, e produce modi e forme espressamente teatrali tra lazzi della commedia dell’arte e dialoghi shakespeariani”. Quest’opera barocca che ispirò già Roberto De Simone e, al cinema, Matteo Garrone (The Tale of Tales), viene adattata da Emma Dante che interviene sulla trama e sceglie di trasformare il racconto in terza persona in un vivace dialogo.

La fiaba originale racconta la storia di due sorelle vecchissime disposte a fare di tutto pur di apparire giovani e belle (e quindi amabili) agli occhi di un affascinante re innamoratosi della voce di una delle due e del dito mignolo dell’altra (che gli è stato mostrato attraverso il buco della serratura). La sorella minore, sotto mentite spoglie, riesce effettivamente a trascorrere una notte con il re, salvo poi vedersi scaraventata dalla finestra nel momento in cui l’inganno viene svelato. Grazie all’incantesimo di una fata sarà poi trasformata in una giovane bellissima e, andata in sposa al re, susciterà una tale invidia nella sorella maggiore da spingerla a farsi scorticare viva nell’illusione di poter ritrovare la pelle giovane, una volta tolta quella avvizzita.

Emma Dante interviene in maniera sapiente sulla trama perché sceglie di attenuare notevolmente la componente di rivalità fraterna che caratterizza il racconto originale: lo spettacolo, infatti, mette in scena un continuo battibecco che, al di là dello scambio di battute offensive e spesso oscene, lascia intravedere un profondo affetto tra le due donne, vittime dello stesso destino di esclusone, povertà e solitudine.

Come già detto, ad interpretare le sorelle – Rusinella e Carolina – sono due (bravissimi) attori uomini: Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola. La scelta della regista non è finalizzata esclusivamente a far rivivere – non senza qualche ironia – la tradizione seicentesca in base alla quale anche i ruoli femminili venivano interpretati da uomini, ma anche a far intuire da subito il “giuoco delle parti” che ha luogo sulla scena. Le due sorelle infatti interpretano, a turno, il re e, in seguito, Carolina – la più giovane – vestirà i panni della principessa, grazie all’intervento di Rusinella che si presterà momentaneamente a fare la parte della fata. Le due sorelle infatti, abbandonate alla propria solitudine, non trovano modo migliore per occupare quel poco tempo che resta loro se non quello di ideare un mondo fiabesco nel quale possono essere, di volta in volta, fata, re o principessa cullandosi così nell’illusione di poter essere ciò che non sono e allontanare, anche solo momentaneamente, l’imminente destino di morte.

La scenografia stessa, ridotta all’essenziale, lascia intendere che Carolina e Rusinella mettono in scena il proprio spettacolo senza avere troppe pretese, proprio come se si trattasse di un gioco di travestimenti tra sorelle bambine. Inizialmente sulla scena sono presenti solo due seggiulelle e un meraviglioso castello in miniatura (quasi una casa per le bambole) che evoca il sogno, e, insieme ad esso, la miseria delle due donne. Noteremo poi la presenza sulla scena di altri due elementi fondamentali: una baule – dal quale vengono estratti, di volta in volta, poveri travestimenti e oggetti che consentano di “giocare al teatro”- e una porta: la porta della catapecchia in cui vivono le due donne. La presenza di questo oggetto non è casuale, perché, pur nella sua semplicità, indica il limite del gioco definendo lo spazio della finzione entro il quale ogni fantasia può essere vissuta con slancio e speranza, il limite oltre al quale incombe la vita reale in cui le due donne sono solo due vecchie decrepite che ingannano il tempo sognando un’altra vita. Il limite fisico imposto dall’età viene quindi superato solo dalla potenza evocativa della fantasia.

Proprio grazie a questo “spettacolo nello spettacolo” si esce dalla dimensione realistica e ha inizio un sogno prolungato finché la componente onirica non sconfina nel delirio: sarà infatti la stessa Carolina a chiedere a Rusinella di scorticarla convinta di poter davvero ritrovare la bellezza estetica della gioventù. E Rusinella, incapace di deludere la sua unica amica di tutta la vita, acconsente portando “il giuoco delle parti” alle estreme conseguenze.

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Tutto lo spettacolo è dunque strutturato attraverso un’abile successione di sottolineature per contrasto che suscitano continui effetti di comicità per poi sconfinare nel vero dramma finale.

Questo racconto onirico e favoloso si oppone con evidenza alla concretezza del linguaggio con cui viene raccontato: il vivace dialogo scritto da Emma Dante infatti, fortemente realistico ed espressivo, non evita riferimenti osceni e metafore grottesche. Paradossalmente questa lingua così viva serve esclusivamente a dar voce ad un sogno che sconfina dall’inconcretezza alla follia.

L’attenta scelta delle musiche (da Comme facette mammeta cantata da Pietra Montecorvino, per la scena dell’amplesso, a Reginella cantata da Massimo Ranieri per accompagnare la trasformazione di Carolina) insieme al sapiente gioco di luci ideato da Cristian Zucaro che riesce a creare incantevoli atmosfere fiabesche alternandole con tagli drammatici, collaborano alla realizzazione di uno spettacolo denso, scandito da tempi precisissimi e sempre coinvolgente.

Emma Dante riesce a mettere in scena un testo che sembra cucito addosso ai suoi attori e, in particolare, intriso della mimica dei loro corpi. La comicità del dialogo, affidato in parte alla ricchezza espressiva del dialetto napoletano, in parte all’inequivocabile gestualità degli interpreti, coinvolge totalmente lo spettatore che non può non provare tenerezza per le due protagoniste. Difficile non sentirsi chiamati in causa nel momento in cui vengono messi in scena il dolore e la solitudine provocati dall’incapacità di accettare sé stessi, il proprio fisico, le proprie frustrazioni, soprattutto in un società in cui il corpo è considerato prevalentemente come fonte d’impaccio e imbarazzo se non corrisponde a un dato modello di “perfezione”.

Ed è così che Emma Dante rivela tutta la propria bravura, dimostrando di saper adattare una favola seicentesca per domandarci se davvero preferiamo considerare il nostro corpo come motivo di mortificazione piuttosto che come potenziale strumento per esprimere tutto ciò che siamo.

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