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Immaginare l’Europa ricordando Leopoli

Dove sono le porte d’Europa? E dov’è, se esiste, quel confine che separa in maniera inequivocabile l’est e l’ovest? 
La nostra geografia mentale, quando si parla del continente, è estremamente parziale, limitata. Il senso comune ha un problema anzitutto di orizzonte: non sa riconoscere l’inizio e la fine di una terra e, spesso, non sa coglierne le sfumature. 
Per anni ci siamo detti e ci siamo convinti che una guerra in Europa fosse cosa impossibile, inconcepibile, qualcosa di relegato ad un passato comune e sfocato e, in ogni caso, un’eventualità che la nostra generazione non avrebbe conosciuto.
Il 24 febbraio 2022, l’invasione russa dell’Ucraina ci ha ricordato due realtà: che la pace è un’auspicabile eccezione della storia e che quella che siamo abituati a chiamare “Europa dell’Est” è meno lontana, orientale, di quanto si possa essere propensi – per un errore ottico – ad immaginare. 

Orientale. Ernst Jünger, in una delle opere-monumento del secolo scorso, ebbe a utilizzare quest’aggettivo come sinonimo di tirannico, detentore di un potere fondato sulla sacralità e sul mistero, su una forza mistica, viscerale e linfatica, che non ha alcun bisogno di autogiustificarsi e che non è pienamente concepibile dal suo opposto occidentale. Chi ha in mente il colonnello Kurtz in Apocalypse Now può ben capire a cosa si allude.
Al suo opposto l’Occidente, della razionalità e della tecnica applicate alla politica, l’Europa della frenetica ricerca del consenso della massa o, almeno, della necessità atavica dei governi e dei potenti di dare al popolo una giustificazione dell’azione intrapresa. 

Nel mezzo, le sconfinate steppe della Russia, con le estasi mistiche dei suoi jurodivyje, con la “grande missione religiosa” preconizzata da Solov’ëv, con lo sguardo lancinante -vorrei dire la più terribile delle espressioni mai dipinte da uomo- dell’Ivan figlicida di Repin. Ma anche con le riforme dal gusto europeo di Caterina e dei primi due Alessandri. Un continente enorme e sospeso tra due terre che non sono concetti assoluti ma «metafore di due atteggiamenti umani fondamentali».

Le porte, però esistono. Esistono luoghi dove si è autorizzati a sentirsi sul confine di un’esperienza, di un’idea e di una terra. Odessa, con le sue storie di tatari, di mercanti e di marinai, è una di quelle. Kostantiniyye forse più di qualunque altra città è coacervo di culture, è luogo d’incontro e di demarcazione, porto di culture diverse, fascino dell’incontro.
Ma v’è una regione, più di ogni altra, dove si è autorizzati a sentirsi al confine di un’esperienza e di un’idea. Oggi la chiamiamo Ucraina sud-occidentale e ci si vuole illudere che quest’aggettivo basti a renderla più sicura di Mariupol, Charkiv, Mykolaïv e della Crimea (anche se il recente bombardamento di cui Leopoli è stata vittima ci costringe a rivedere, almeno parzialmente, l’asserzione). Ma prima di tutto essa è Galizia, è Bucovina, è Lodomiria, ed è un’estremità di un’idea.


Joseph Roth, ebreo di stretta osservanza asburgica, il più grande cantore di quella terra «dove vivevano uomini e di libri» scriveva, parlando della capitale della Galizia come di una «città dai confini annullati. […] Dopo Leopoli inizia la Russia, un altro mondo». Oggi quel limite si è spostato un po’ più ad est e la città ha perso molta della sua capacità di annullare i confini, di contenere al suo interno un mondo: l’occupazione nazista portò allo sterminio dei centomila ebrei di Leopoli e, di conseguenza, oggi non si ode più, nelle vie circostanti l’Opera, parlare lo yiddish ricordato da Roth e non si scorge più, nelle strade della capitale della Galizia, quell’intreccio di vite e di storie provenienti da ogni angolo delle terre dell’antico Impero, la pluralità delle lingue e delle nazionalità: vi fu un’epoca – ed appare un lontano passato – in cui al ruteno si mischiavano il polacco, l’ungherese e il rumeno della Valacchia.

Lo stesso discorso vale per Cernovizza: le vicende storiche hanno rarefatto l’aria pregna di leggende chassidiche ricordata da Rose Ausländer e impoverito il «barocco milieu linguistico» che la caratterizzava.
E vale anche per Brody, città natale di Roth e vecchia stazione di frontiera tra i due Imperi, dove non sopravvive più l’affascinante intreccio ricordato con precisione in Ebrei erranti.
Si potrebbe continuare con un lungo elenco di città e di luoghi: ricordi di un’Europa che fu – e che ancora vive nelle pagine dei suoi cantori – e che venne radicalmente trasformata dalla contemporaneità, dalle ideologie del Novecento. Un mondo che, usando le recenti parole di M. Pollack, «ha risvegliato l’interesse degli occidentali soltanto a partire dalla sua distruzione».

Europa
Cartolina d’epoca asburgica (1904) del viale Carlo Ludovico (ora viale delle Legioni) a Leopoli, con particolare del quartiere ebraico. Via Wikimedia Commons.

Eppure sopravvive, in Galizia, un ricordo di un altrove europeo: i palazzi in stile Secessione, diretto riflesso di quella viennese, il cortile alla veneziana di Palazzo Kornyakt a Leopoli e la cultura dei caffè, onnipresente segno di una Mitteleuropa che fu. Le chiese latine, uniate, armene e ortodosse alle quali si affiancano le piccole cappelle in legno frequentate dagli Hutsul nelle campagne, che al milieu linguistico aggiungono una pluralità di riti e di liturgie. 

L’altrove -come si è detto- di questa regione la porta ad essere un luogo della memoria, segno vivente di un mondo che fu e, allo stesso tempo, di una realtà pienamente europea ed occidentale, rafforzata in queste caratteristiche dal suo essere porta di un mondo.
Sarebbe bello, passeggiando per le vie delle città della Galizia, ricordare senza nostalgismo (ma non senza un po’ di sana nostalgia) una terra che fu e che non si dovrebbe considerare né lontana né “dell’Est”. E immaginare un’Europa possibile, che da lì riparta.

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