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Il violinista dal futuro incerto

Una mattina vi svegliate distesi al fianco di un violinista privo di conoscenza, un violinista molto famoso. Gli è stata diagnosticata una grave insufficienza renale, la società dei musicofili ha consultato tutti gli archivi medici disponibili e ha scoperto che siete gli unici a possedere il tipo di sangue adatto per la trasfusione. Vi hanno rapito, e la notte precedente il sistema circolatorio del violinista è stato collegato al vostro, in modo che i vostri reni possano depurare il suo sangue così come fanno con il vostro. Il direttore dell’ospedale vi dice «Guardi, siamo spiacenti che la società dei musicofili le abbia fatto questo, non l’avremmo mai permesso se l’avessimo saputo. Tuttavia l’hanno fatto e ora il violinista è collegato al suo corpo. Staccarsi vorrebbe dire ucciderlo. Ma non c’è da preoccuparsi, è solo per nove mesi. Per allora sarà guarito dalla sua insufficienza, e potrà essere staccato senza pericoli».

Il caso del violinista, ideato dalla filosofa Judith Thomson, è una buona parabola sull’aborto che mostra i salti nel vuoto delle tradizionali argomentazioni, tanto anti-abortiste quanto abortiste. È una parabola che mantiene i ruoli tipici dei suoi protagonisti: l’uomo rapito che tiene in vita il musicista è l’ipotetica futura mamma, il violinista, invece, è il bambino non ancora nato che lei porta in grembo. Anche se figlia della prospettiva abortista, J. Thomson cerca di mostrare come l’aborto si riduca spesso, prima di ogni considerazione di parte, ad una questione di “pretese”, a volte legittime e altre volte che vanno oltre la legittimità.

L’argomento a noi più familiare sulla liceità o meno dell’aborto è quello su cui le parti si sono più combattute, un accanimento miope che J. Thomson rimprovera: lo status del feto. Il violinista è il protagonista di questa impostazione classica: è lo status che noi attribuiamo al feto, al nostro musicista, che sposta l’ago della bilancia dal lecito all’illecito e viceversa. Anti-abortisti e abortisti hanno cercato di garantire o negare al feto lo status di persona, una condizione che ha reso l’aborto per i primi una sottocategoria dell’omicidio, per gli altri il frutto di una scelta consapevole. Gli anti-abortisti guardano al feto dalla prospettiva della potenzialità: il feto è già persona perché lo è in potenza. Il feto sarà un bambino, e anche se non lo è al momento basta capovolgere il ragionamento per rendersi conto che il bambino non ci sarebbe se non vi fosse stato prima un feto. La vita biologica qui porta con sé lo status di persona: ha inizio col concepimento e possiede il medesimo valore in tutte le fasi vitali che seguiranno. Gli abortisti, invece, adottano la prospettiva dell’atto: il feto “diviene” persona ma non lo è ancora. La persona è uno stato completo che nelle sue fasi può essere presente solo in maniera residuale: il feto, anche se diventerà un bambino, non lo è al momento, è un feto, non gli si può attribuire nessuna caratteristica personale finché non sarà davvero un bambino in grado di esibirla. La mera vita biologica non è più un riferimento importante, è la qualità della vita che giustifica le nostre scelte: una vita “buona”, non solo una vita, è quella che vive una persona.

Nella vicenda del violinista, però, queste argomentazioni perdono un po’ il loro sapore: che il violinista sia una persona nessuno lo metterebbe in dubbio, che la sua vita abbia valore tanto meno. L’uomo rapito dovrebbe concedergli il suo aiuto proprio per permettergli di continuare a vivere una vita di grande valore, per lui e per chi assisterà ai suoi concerti. L’esperimento mentale di J. Thomson è infatti creato a pennello per superare il dilemma sullo status del feto. Quello che J. Thomson vuole mostrare è che, pur attribuendo al feto lo status di persona, trarre da ciò l’inammissibilità dell’aborto sarebbe un salto nel vuoto che dimentica molti problemi. Così, per amor di argomentazione, il feto è sostituito dal violinista, e partendo dallo status di persona che si è guadagnato, al primo protagonista affianchiamo il secondo: l’uomo rapito.

Entrambi i protagonisti sono soggetti di diritti e di doveri. Il più fondamentale dei diritti, che nella nostra storia è il più evidente, è il diritto alla vita. Il violinista è una persona, e ogni persona ha diritto a vivere. Staccandosi da lui, l’uomo rapito violerebbe questo diritto che invece ha il dovere di rispettare. L’uomo rapito, però, è destinatario di un diritto molto caro a Judith Thomson: il diritto al possesso del proprio corpo. Egli ha il diritto di decidere cosa fare del proprio corpo e quindi è legittimato a scegliere di non restare in un letto d’ospedale per nove mesi.

Il diritto alla vita è però meno ovvio e immediato del previsto. A nessuno di noi sembra logico che il violinista pretenda la propria vita a spese dell’uomo che i musicofili hanno rapito: il diritto alla vita è sì fondamentale, ma non tanto da superare la decenza. Anche qui la Thomson ha disposto con cura i dettagli del gioco mentale. Quello che nella nostra storia il violinista può avanzare non è il diritto ma il bisogno alla vita. Stando così le cose, se non possiamo parlare del diritto alla vita come diritto positivo, possiamo parlarne in negativo: il violinista non ha diritto ad essere mantenuto in vita, ha il diritto a non essere ucciso.

Scegliendo di non mantenere in vita il violinista, l’uomo rapito eserciterebbe il diritto al possesso del proprio corpo ma violerebbe quello del violinista a non essere ucciso. Qui però le carte in tavola cambiano: l’uomo rapito, nonostante la sua violazione, sta agendo ingiustamente? Secondo J. Thomson no, anche se sta facendo qualcosa che il violinista ha il diritto che non gli venga fatto, nel farlo non agisce ingiustamente. Il nuovo diritto alla vita che J. Thomson sostituisce al diritto alla vita classico ha un’aggiunga rilevante: diritto alla vita=non essere uccisi ingiustamente.

L’appellativo “giusto”, nel nostro caso, non è così facile da attribuire. J. Thomson ce lo spiega con un nuovo gioco mentale: un padre regala al figlio più grande una scatola di cioccolatini. Anche il fratellino più piccolo vorrebbe mangiarne qualcuno ma il fratello maggiore li mangia tutti senza offrirgliene neanche uno. Potremmo dire molte cose sul figlio maggiore, potremmo dire che è stato goloso, meschino, insensibile nei confronti del fratellino, ma non che è stato ingiusto. Non bisogna confondere l’ingiustizia con la meschinità altrimenti ricominceremmo a dire che il bambino aveva il “dovere” di offrire i cioccolatini a suo fratello e che l’uomo rapito aveva il “dovere” di tenere in vita il violinista. Questo tipo di dovere è una pretesa che va oltre la legittimità, è la richiesta di fare ciò che va oltre il dovere minimo. Quello che la tradizione pretende è un “buon samaritano”, così lo chiama J. Thomson, mentre quello che la giustizia prevede è un “samaritano minimale”. Ci sono limiti che non vanno superati e doveri fondamentali che vanno compiuti, quando li si confonde, però, la madre diventa assassina e l’uomo rapito diventa un omicida. Quello che tutt’al più sono la donna e l’uomo rapito è insensibili, potrebbero concedere 9 mesi al feto e al violinista, sarebbero estremamente buoni se lo facessero, ma il non farlo non li rende ingiusti.

Quello che J. Thomson cerca di mostrare è che l’aborto non è illecito per colpa delle ragioni che abbiamo sempre avanzato. Non dice che è lecito ma che può esserlo, che non è inammissibile ma non è sempre ammissibile. L’uomo rapito non dev’essere moralmente condannato se sceglierà di staccarsi dal violinista ma sarebbe un piccolo eroe se non lo abbandonasse. Gli eroi compiono azioni che vanno oltre i loro doveri, ma gli uomini sono mortali e impazienti, quindi essere un eroe sarà solo quello che l’uomo rapito vorrebbe tanto voler scegliere.

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