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Cinema2Day: i mercoledi accattony

Correva l’anno 2005. Frequentavo le medie, creavo una mail dal nome osceno su hotmail e andavo a dormire molto presto. Ma c’era un giorno alla settimana, per un breve periodo dell’anno, in cui cercavo di tenere aperti i miei stanchi occhi da fanciullino imberbe, per il mio primo appuntamento. No, niente storie alla Vice dal titolo “abbiamo chiesto agli studenti universitari qual è stato il loro primo approccio con l’altro sesso”, rischiando poi di passare per omofobi o, peggio, correndo il pericolo di dover allungare ulteriormente il titolo per includere ogni evenienza. Ma questo non è Vice e qui non parliamo così spesso delle “droghe fantastiche e dove spacciarle”, anche se il numero di marzo 2017 sembrerebbe smentirmi. Sto divagando? Decisamente. L’appuntamento in questione era con Maccio Capatonda. Mi si apriva così un nuovo mondo. Quello dell’ignoranza (mascherata).

Lasciamo da parte questo preambolo per un attimo e ripercorriamo il mercoledì accattone, fratello povero di quello universitario. Otto marzo. Mentre molti donavano e ricevevano mimose, il buon vecchio cinema ci regalava ancora una volta i cinema2day, riconfermati per altri 3 mesi come largamente auspicato da tutti. Se c’è una cosa che possiamo fare con gli errori del passato è imparare delle lezioni. “No! – mi ero detto – stavolta non mi faccio fregare! Questa volta vado presto e troverò i posti; chi vuoi che ci sia alle cinque del pomeriggio?” Ora so che mi sbagliavo. Quanto mi sbagliavo. Il piano originale era perdere diottrie guardando tre film di seguito a partire da “Il padre d’Italia” con Luca Marinelli, condizione sufficiente per meritare il mio tempo. Okay, forse anche la fotografia sarebbe stata una motivazione piuttosto valida dato che si presentava davvero bene dal trailer. Si, sono costretto a dire “sarebbe” perché una volta alla cassa i biglietti erano già finiti. Ma bando alle ciance. Mi ritrovavo dunque con la scelta infelice di dover ripiegare su qualcosa prima di poter guardare gli spettacoli successivi, fortunatamente andati come previsto. Mi sono quindi lanciato su “Omicidio all’italiana”. Ed ecco che allora torniamo al buon Maccio, in arte Marcello Macchia. Come preannunciato, seguo il nostro uomo dai mille nomi da ormai una decina d’anni, ho potuto guardare, riguardare, commentare, ripetere a non finire le sue frasi, riprendere le movenze de “il Piccolo Riccardino Fuffolo”, ho fatto mio il suo stile non-sense all’italiana e allora perché non è stata la mia prima scelta? Il suo primo film, “Italiano medio”, era un esperimento, una novità per il Maccio regista e sceneggiatore; gli si poteva perdonare qualche faciloneria, qualche caduta qua e là, una semplificazione al fine della risata, qualche battuta scontata e fin troppo facile, i nomi storpiati, i personaggi molto sopra le righe. Ovviamente non mi lamento di questi espedienti, anzi; questi sono i canoni su cui si basa la sua comicità. Ma il punto è proprio questo. Il suo stile è ormai codificato, riconoscibile e purtroppo non più “innovativo” o spiazzante. Se l’idea di “Un attimo al bagno” è talmente idiota da far ridere, si nota come il cercare di complicare la narrazione non gioca a suo favore. L’hanno detto tutti quindi non suonerà molto fresco come parere, ma i critici rinomati, per il fatto di avere una certa età, non hanno vissuto il fenomeno “Capatonda” come formativo, come tassello fondamentale della crescita comica e, perché no, anche comunicativa. Spesso, questi stessi critici non hanno neanche una visione completa della moltitudine di materiale del regista. In virtù di queste caratteristiche, che con un gesto vanesio mi attribuisco, voglio lanciare i miei due centesimi sul discorso. Maccio è geniale. Niente da dire e anzi, aggiungo, non accetto neanche le opinioni contrarie (si fa per dire). Ha creato un genere, ha sfruttato il web ancora prima del boom dell’internet mobile, ha creato webserie quando ancora non venivano chiamate webserie, eppure.. Eppure il suo spazio è quello. Pochi minuti, sketch incisivi, vivaci, assurdi, senza secondi fini, senza morale di fondo, senza critica sociale. Il tipo di comicità a cui ci ha abituati è troppo semplice per una satira degna di questo nome, benché alcuni suoi personaggi funzionino anche in quel senso (si pensi a Jerry Polemica che, con il solito “assurdo”, faceva dell’infotainment). I nomi storpiati all’inverosimile descrivono fin troppo i personaggi e lasciano quel sentore di cartone animato che non ha molto senso di esistere al cinema. Non in maniera così massiccia: ogni personaggio ha un nome o cognome che evidenzia qualcosa, suscitando più noia che risate. “Italiano medio”, poi, aveva dalla sua una regia interessante, considerando il genere; il Maccio regista azzardava talvolta e ci riusciva pure in maniera convincente. Non stavolta. Mancano spesso dei movimenti di macchina che comunichino qualcosa, mentre altri movimenti risultano proprio stonati e non hanno granché da mostrare, finanche ad apparire brutte. I soliti attori/personaggi tornano come sempre, punto a favore dell’intero lavoro di Maccio. L’arrivo di Rupert Sciamenna è liberatorio visto che si palesa solo alla fine, ma l’attesa sarà ricompensata e andrà a generare la risata più fragorosa del film, proprio perché non c’è logica dietro quella battuta, rivelandosi non-sense come ai vecchi tempi. Degno di nota anche il richiamo a Scooby-Doo quando il colpevole viene smascherato, ma il resto non rimane impresso nella memoria, nessuna battuta di particolare spicco, una morale all’acqua di rose, battute e scelte talvolta banali. Maccio rimane un luminare, che brilla solo per pochi minuti alla volta.

Usciamo, benché non l’avessi detto non ero da solo con le mie patatine introdotte di straforo, dalla sala leggermente delusi ma con i biglietti del secondo film in mano. Tocca ora all’ennesimo cinefumetto, sequel dell’ennesima saga fortunatamente arrivata all’ultimo episodio: Logan – The Wolverine.

Il nuovo millennio portò con sé una rinnovata passione per la trasposizione su pellicola delle gesta dei supereroi supportata soprattutto dall’avanzamento della tecnica. Esce nel 2000 il primo X-Men e insieme agli Spiderman di Raimi, fa da apripista a quel genere incredibilmente florido che è oggi. Hugh Jackman, all’epoca trentaduenne, è invecchiato insieme al suo personaggio (benché questo sia immortale) e dunque prima o poi doveva giungere il momento di concludere il suo arco narrativo con un ultimo film a lui dedicato. Il film intrattiene senza troppe pretese; è auto-citazionista quando vengono mostrati i fumetti da cui è tratta la saga cinematografica; ha dei personaggi che non hanno così tanto da dire e cambiano troppo velocemente, soprattutto la giovane Laura che oggi, alla luce di Stranger Things, non può che assomigliare ad Undici; grande interpretazione di Patrick Stewart nei panni del professor Xavier e si riconferma una scelta incredibilmente azzeccata in quelle vesti. Il cattivo di turno, figlio del cattivo di turno di qualche film precedente, è un cattivo di turno. Persegue il suo obbiettivo, è un genio del suo campo ma si comporta come se facesse tutto un po’ a caso. Sia ben chiaro, il film non annoia mai ed è anche più interessante dei suoi due predecessori, ma la regia è operaia, non fa nulla per essere ricordata e questo è ancora più sottolineato se messo a confronto con il film che avrei visto a breve.

Il terzo film della maratona dei poveri è il sequel di un cult che ha fatto l’adolescenza di molti ragazzini dell’ultima generazione: T2 Trainspotting. Facciamo una premessa: serviva? probabilmente no. È stata una buona scelta? Assolutamente si. Che dire? Dopo due film senza guizzi di regia, con immagini solo mostrate e mai espressive, finalmente abbiamo un’attenzione maniacale al movimento. Tutto è dinamico come le vite sempre in bilico dei nostri vecchi paladini. Vecchi non solo nel senso di “personaggi del passato” ma proprio invecchiati. Il clima è pazzesco, sembra quanto di più naturale ci si aspetterebbe dal mondo creato da Welsh e trasportato sullo schermo da Boyle. I personaggi rimangono meravigliosi nel loro degrado, il mondo è cambiato ma loro rimangono quelli che dall’esterno considereremmo dei falliti, dei criminali, dei tossici troppo cresciuti. Ancora una volta cercano di guadagnare soldi facili ma qualcuno rimane, nuovamente, fregato. Non sfuma tutto in un nulla di fatto perché l’episodio farà rinsaldare i vecchi legami, nel bene e nel male. Allo stesso modo i personaggi nuovi hanno il loro fascino nonostante vengano offuscati dalla carica dei nostri paladini scozzesi. In sintesi: il tutto puzza/profuma di omaggio ad un cult, girato dal regista per se stesso più che per il pubblico; non di meno è un’enorme ammiccamento al pubblico che ha amato il primo. Veloce quando deve, si prende i suoi tempi quando vuole ma sempre accompagnato da scelte visive impressionanti. Dalle proiezioni sulle pareti mentre “si fanno”, ai movimenti di macchina che seguono il fulcro del movimento. Memorabile lo spostamento del microfono al pub o il dito di Begbie contro il figlio. Nulla da aggiungere se non che è come ritrovare dei vecchi amici, come vedere i drughi di Arancia Meccanica rincontrarsi al bar sotto casa per un’ultima devastazione.

Finalmente appagato e leggermente stanco, a mezzanotte inoltrata rivedo l’assenza di luce di un Sole tramontato nelle sette ore passate dentro al cinema. Una maratona che sa di ricordi visto che, benché non programmato, tutti e tre i film si sono rivelati parte della mia formazione cinematografica e non solo.

Ps: tornando a casa ho bucato una ruota. Buonanotte.

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