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Recensione/Il Ventaglio

Una grande lavagna bianca e un’unica scritta: Amore… Poi, le spire dell’intreccio la coprono di graffiti metropolitani, che registrano le contraddizioni e gli equivoci della passione. Questa è la scenografia di Paolo Fantin per Il Ventaglio (Carlo Goldoni, 1763) messo in scena al Teatro Fraschini di Pavia (26-27-28 febbraio 2013). Portato da Teatro Stabile del Veneto – Teatri e Umanesimo Latino, è stato diretto da Damiano Michieletto, con costumi di Carla Teti e luci di Alessandro Carletti. I personaggi arrivano sulla scena nel buio e si costruiscono, poi, sotto gli occhi del pubblico, grazie a quei piccoli-grandi oggetti che simboleggiano la loro identità. Sul potere degli oggetti, appunto, sarà giocata la commedia. In sottofondo, musiche di Amy Winehouse e Lou Reed. La trama ruota attorno a un ventaglio, dono galante che diventa causa di fraintendimenti e pettegolezzi. Questi, per poco, non faranno crollare due storie d’amore.
La passione è intricata in ogni luogo e tempo, sembra dirci questa regia. Niente costumi d’epoca, ma un’ambientazione metropolitana, di vago sapore statunitense. Bandana e tatuaggi per l’oste Coronato (Pierdomenico Simone); treccine “rasta” e maglietta con bandiera giamaicana per il calzolaio Crespino (Silvio Barbiero). I due si contendono l’amore di una Giannina (Silvia Paoli) in collant e shorts. Suo fratello Moracchio (Nicola Ciaffoni) esibisce la tuta trascurata e i capelli unti: dal contado, i due sono passati al sottoproletariato urbano. “Limoncino” (Matteo Fresch) indossa gilet e occhiali giallo fosforescente, come si addice al suo soprannome. L’innamorato Evaristo (Daniele Bonaiuti) è uno scattante tennista. La sua Candida (Giulia Briata) è un’adolescente “per bene”, con borsetta a forma di cuore; recalcitra sotto la custodia della zia Geltruda (Katiuscia Bonato). All’osteria, si confrontano un ricco Barone (Emanuele Fortunati), con completo da manager, e uno spiantato Conte (Alessandro Albertin), ormai sbottonato in ogni senso. La merciaia Susanna (Manuela Massimi), dal look a dir poco sfacciato, fuma compulsivamente, con fare da borghese insoddisfatta. Il “Ventaglio” si sdoppia: da una parte, un prosaico ventilatorino portatile; dall’altra, uno spiritello alato (Giuseppe Nitti), con giacca a coda di rondine e scarpe da ginnastica, che gioca coi personaggi come fossero marionette. Questo “Cupido” mostra quale sia il valore simbolico dell’oggetto: pegno d’amore, anzi, in grado di legare o dividere una coppia. I personaggi, a volte, si rivolgono al pubblico; oppure, fanno allusioni all’attualità. Amare riflessioni e speranze trovano voce anche attraverso squarci di poesia contemporanea o sonetti shakespeariani. Soprattutto, il Sonetto CXVI, recitato dal “Ventaglio”: “Non sia mai ch’io ponga impedimenti/all’unione di anime fedeli; Amore non è Amore/se muta quando scopre un mutamento/o tende a svanire quando l’altro s’allontana…” Ciò è difficile in una comunità di villaggio assai promiscua, dove ognuno sa tutto di tutti, ma con ottica deformata dalla malizia. Eppure, quella scritta Amore… continua a spiccare tra i concitati graffiti, fino a diventare l’ultima parola. Essa è l’unico “faro sempre fisso” che “sovrasta la tempesta” di fraintendimenti e gelosie.

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