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Non basterà il silenzio, è necessario che tutto bruci.

Giulia Cecchettin è la centocinquesima donna morta per femminicidio in Italia dal primo gennaio 2023. Per avere la percezione del fenomeno, ogni settantadue ore nel nostro Paese una donna viene uccisa da un uomo. Questo vuol dire che se la settimana comincia il lunedì, sveglia-caffè- autobus- lavoro-pranzo-lavoro- autobus- palestra- cena, entro il mercoledì – ovvero alla terza ripetizione di questa routine- un’altra donna sarà morta. C’è di più, entro  il trentuno dicembre del 2022 le donne uccise in Italia erano 104, trovandoci ora ancora poco oltre la metà del mese di novembre il bilancio per il 2023 è destinato inesorabilmente a crescere.

Cecchettin omicidio Elena Cecchettin manifestazione
Il corteo di una manifestazione per Giulia Cecchettin a Padova | Fonte: Ansa

Eppure, in Italia sembra che tale problematica non sia da ritenersi un fenomeno di matrice sistemica e reiterativa ma sporadica, quasi il frutto di una non precisata legge dei grandi numeri:

se è dell’umano l’omicidio, il fatto che la vittima sia una donna è un fatto statisticamente probabile al cinquanta per cento.

Non c’è nulla di più problematico che ridurre la complessità di un fenomeno al puro effetto che è in grado di generare.

Chi uccide queste donne? Per quale motivo ciò accade? Come mai questo si ripete con una tale millimetrica ciclicità?

Per la stampa nazionale ma ancor di più per i media televisivi, la risposta a queste domande è interamente manipolata da distorsioni di narrativa.

In queste circostanze si delineano due approcci.

Il primo racconta di uno specifico concetto di mostruosità: l’assassino il più delle volte assume connotati animaleschi quasi che nel gesto sia difficile riconoscere la natura umana dell’individuo. Si parla di “mostro”, “bestia”, “gesto brutale”, “predatore”, “attacco”, “raptus”. La domanda in assoluto più gettonata in tutte le trasmissioni dedicate al tema è: “Cosa innesca un gesto di questa portata?”.

La controparte di questo profilo deumanizzante prevede poi che si innalzi (prima sommesso e poi delirante) un coro antitetico romanticizzante “era un bravo ragazzo”, “la amava moltissimo”, “non le avrebbe mai fatto del male”, “erano sempre stati felici”, “questo è un paese tranquillo”, si allegano foto di coppia durante la gita in montagna, scatti sorridenti di fronte a una torta di compleanno, baci rubati, abbracci.

Le due narrazioni per quanto fatalistiche e a prova di clickbait sono irrimediabilmente fallaci.

A spiegarcelo con inesauribile coraggio è proprio la sorella di Giulia Cecchettin, Elena a cui dobbiamo una delle più dignitose e lucide riflessioni di questi giorni. Cito testualmente:

“Si è sentito parlare di Turetta (…) come un mostro, come un malato. Ma lui mostro non è, perché mostro è l’eccezione alla società. (…) Lui è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro. (…) È una struttura che beneficia tutti gli uomini”.

Deumanizzare un assassino o renderlo innocuo ai nostri occhi non rende il gesto che ha compiuto più facilmente accessibile ai nostri (legittimi) interrogativi esistenziali; lo semplifica, certo, ne riduce la portata ma ci allontana a poco a poco dal vero.

Elena Cecchettin ci fornisce un’ottima chiave di comprensione.

Parla, infatti, di figliolanza diretta con il patriarcato; l’omicidio, in quest’ottica, è l’ultimo irreversibile atto di un lungo processo di delegittimazione della volontà femminile in un sistema di potere a panaggio prettamente maschile, il cui messaggio intrinseco è: “tu sei nella misura in cui io sono e qualora tu non voglia accettarlo, qualora tu voglia affermarti ed essere per il diritto che ti spetta di farlo, allora non sarai”.

Prima che però si arrivi a questo, il millenario bias collettivo, per il quale il pensiero femminile risulta irreparabilmente subordinato e secondario al pensiero maschile, può esprimersi anche in forme molto più banali, dall’interrompere una collega mentre sta parlando, al fare un commento sessista nei confronti di una ragazza in palestra, al non ritenere affidabile la propria compagna per una determinata mansione solo perché donna o imporle di attuare in nome di questo delle rinunce. Non è dunque l’assassino ma piuttosto l’uomo che attraverso un processo lento ma inesorabile costruisce la propria personalità su convinzioni fallocentriche, antiparitarie e sessiste.

Elena Cecchettin a questo punto ci porta dunque anche allo step successivo parlando di cultura dello stupro e: se l’opinione, la voce, il giudizio femminile hanno meno valore in quanto tali, cosa ne è del loro consenso?

Non verrà richiesto, non verrà ritenuto cruciale allo scambio relazionale, dire no, da questo assunto in poi, non è più un diritto.

L’immediata risposta a queste illuminate sollecitazioni proposte (non solo da Elena Cecchettin ma anche da chi di violenza di genere si occupa da tempo) è stata un generale senso di indignazione tra gli uomini con l’intento di affermare che “not all men”, non tutti gli uomini sono responsabili.

Tutti però (cito ancora) “beneficiano” più o meno consapevolmente “di questa struttura”.

Quando, infatti, in un contesto di aggregazione sociale qualcuno dei membri gode di un beneficio, difficilmente riuscirà a esserne consapevole finché qualcuno che non ne gode affatto non glielo farà notare.

Viene da chiedersi come mai a seguito di un susseguirsi di tragedie così vicine tra loro si faccia ancora così fatica a mettere da parte il proprio ego e stare dalla parte degli oppressi, in questo caso delle oppresse.

Perché sarà forse anche vero che molti uomini hanno intrapreso un percorso di consapevolezza ma se “not all men” ciò di cui siamo certe e certi è che quasi “all women” hanno subito almeno una volta nella loro vita una forma di abuso verbale o fisico e il dato è ampiamente sottostimato perché chi afferma di no spesso non è in grado di riconoscerne uno.

Su questo punto uno dei progetti recentemente più interessanti è il lavoro portato avanti da Carolina Capria sul suo profilo @lhascrittounafemmina in cui si occupa di femminismo e questioni di genere. Dagli episodi dello stupro di Palermo la sua proposta è stata quella di aprire uno spazio in cui chiunque potesse raccontare di abusi di qualsiasi genere subiti e condividere parte della propria storia. Un rito collettivo che ora ha come appuntamento fisso la domenica mattina dove tutto il materiale raccolto è tra le storie in evidenza dello stesso profilo.

Cecchettin omicidio
Elena Cecchettin manifestazione
Il corteo di una manifestazione per Giulia Cecchettin a Padova | Fonte: Ansa

È un’immersione abissale e straziante leggere tutte le testimonianze, una doccia gelata di consapevolezza da cui emergono due dati fondamentali.

Il primo, la maggior parte degli abusi ha sede tra le mura domestiche o è a carico di conoscenti, amici, persone definite affidabili.

Il secondo, l’età media dei primi abusi è davvero bassa (si parla della prima infanzia) ed esperienza comune è il doloroso riconoscimento di certi gesti come abusanti solo molti anni dopo.

Questo è un problema sistemico.

Questo è un problema di tutti.

Questo è un problema che ha bisogno di soluzioni su larga scala.

Non basterà delegittimare le parole di Elena Cecchettin (che il consigliere regionale Valdegamberi ha definito un messaggio ideologico pronto per la recita”), tutto resterà immutato finché lo Stato continuerà a ridurre i fondi per i centri antiviolenza e continuerà a escludere l’educazione sessuale e al consenso nei programmi ministeriali fin dall’infanzia e ancor di più è ormai scadente e svilente liquidare la soluzione a questa enorme problematica con un invito alle donne a tutelarsi di più, cambiare le proprie abitudini sociali quando il pericolo, il più delle volte, è tra le mura domestiche.

Abbiamo bisogno di maturare una coscienza sociale che includa soprattutto gli uomini nel cambiamento, è necessario scendere nelle piazze, è necessario dare legittimità e credibilità a tutte le donne che denunciano e si espongono e anche trovare nuovi modi per sostenere quelle che faticosamente restano nell’ombra.

È necessario saper dare un nome corretto e coerente ai fatti, è necessario che gli uomini siano chiamati ancora uomini e che rispondano delle loro mancanze (relazionali e non) e dei vuoti educativi, la rivoluzione non potrà dirsi compiuta finche non saranno loro a riempire le piazze e i cortei.

Non basterà il silenzio, è necessario che tutto bruci.

Cecchettin Giulia manifestazione
Manifestazione di Pavia “In Piazza per Giulia” di martedì 21 novembre

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