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Il rapporto medico-paziente nella storia

Nel libro Cent’anni di solitudine, Gabriel Garcia Marquez descrive la storia di una famiglia collocata in un paese immaginario, arcaico e isolato dal resto del mondo: Macondo. Gli abitanti hanno piccoli assaggi del progresso umano attraverso oggetti “scientifici” portati dagli zingari che passano periodicamente nel villaggio. Dal ghiaccio, a dentiere, lenti di ingrandimento e calamite, questi oggetti suscitano forte curiosità. Il paese ospita man mano personaggi da luoghi differenti, che cambiano la terra incontaminata, fino alla costruzione di una ferrovia. Il contatto con il resto del mondo stravolge il villaggio, e mette in dubbio il suo tipico pensiero magico, dove realtà e mito si intrecciano. Da un mondo ben delineato da certezze, spunta il miraggio, o la possibilità che esistano illusioni. Un cambiamento simile è avvenuto nella storia della medicina, dove per centinaia di anni, religione, teorie fantasiose e realtà sono rimaste mescolate nel tentativo di alleviare le sofferenze e salvare vite.

Quindi quando iniziò la medicina? Probabilmente la prima volta che una frattura scomposta venne riassestata. Alcune tavole Babilonesi contengono descrizioni di malattie associate alla prognosi, e sappiamo da papiri egizi, come quello di Edwin Smith, che la medicina egizia aveva i suoi metodi diagnostici basati sui cinque sensi; molto utili per captare anomalie, poco utili se non si hanno basi anatomico-fisiologiche per interpretare quello che si vede.

IL cambio di prospettiva greco

I dibattiti cambiarono con la medicina greca, di cui ci arrivano notizie attraverso il Corpo Ippocratico, un insieme di testi medici attribuiti ad Ippocrate da Cos. Al tempo coesistevano diverse tecniche curative, e la medicina “Ippocratica” fu la prima a separarsi dall’utilizzo di volontà divine per spiegare la causa delle malattie. I medici ellenistici avevano una visione olistica dei malati, che spesso interveniva modificando dieta e stile di vita dei pazienti. Mancavano le conoscenze anatomiche e scientifiche di base per capire cosa succedesse nel corpo, si pensi solo che la scoperta del ricircolo del sangue per mezzo della pompa cardiaca avvenne agli inizi del 1600 d.c. con William Harvey. Senza fatti ben studiati sul funzionamento del corpo, l’elaborazione di teorie era lasciata ad un mix di osservazione ed immaginazione. Nacque così la teoria degli umori.

L’influenza ospedaliera sul rapporto medico paziente

Nel 390 d.C., Fabiola di Roma, un’aristocratica convertita al cristianesimo di cui sappiamo attraverso le opere di San Girolamo, fonda il primo ospedale dedicato all’accudimento dei poveri e malati. In Occidente queste strutture rimasero modeste, e dedicate principalmente ad accudire, ma il loro sviluppo facilitò la scelta di papa Sisto I a legalizzare la dissezione sui cadaveri. La trasformazione degli ospedali da luoghi di convalescenza a strutture medico-scientifiche avvenne proprio per il progressivo accumularsi di una “medicina scientifica” fondata sull’anatomia e le scienze di base.

Lo sviluppo ospedaliero, come argomenta Micheal Foucault nel libro Birth of the Clinic del 1963, ha avuto un forte impatto sul rapporto medico paziente. Il concetto di “sguardo medico” identifica la pratica del dottore di separare il corpo del paziente dalla sua identità, tralasciando quest’ultima. Proprio in ambienti ospedalieri, con reparti divisi secondo malattie, è facile che il paziente perda la sua personalità per diventare solo un caso della malattia stessa.

Il rapporto medico-paziente passato

Nel passato, senza servizi sanitari nazionali, i dottori dovevano competere l’un l’altro; i bisogni e le credenze dei pazienti di conseguenza influenzavano molto la pratica medica. Le teorie umorali fornivano inoltre poco aiuto al medico che esercitava prima del 1800, e questo minava ulteriormente la validità delle cure. Spesso, senza volerlo, il medico passato peggiorava la situazione dei suoi pazienti. Le terapie a sua disposizione si basavano sull’escrezione di “tossine” dal corpo attraverso prelievi di sangue, vomito e dissenterie; in alcuni casi metalli pesanti come il mercurio, che oggi sappiamo essere tossici. Il danno iatrogenico non è quindi solo un problema del dottore moderno, Joseph Addison scrisse nel suo The Spectator del 1711: “possiamo metter come massima che quando una nazione abbonda di dottori scarseggia di persone”.

L’arrivo della scienza

L’arrivo della scienza cambiò drasticamente il rapporto medico-paziente. Dove il medico prescientifico sarebbe stato casuale, il medico moderno era accurato, sistematico; lo si notava già dalla disposizione delle domande che formavano la storia del paziente. Le visite diventarono una successione precisa di ispezione, percussione ed auscultazione; la raccolta di sintomi e segni risultava in una diagnosi differenziale – nient’altro che un’ipotesi sui diversi meccanismi patologici che potevano causare quei sintomi e segni, che agli inizi del 1900 era seguita da test di laboratorio e radiografie. I meccanismi diventarono una parola chiave dell’epoca.

I nuovi medici divennero scettici. Si resero conto che nonostante le migliorie nelle diagnosi, le cure erano scarse. Inizia quindi un periodo soprannominato nichilismo terapeutico, in cui i dottori riconoscevano l’importanza di non trattare. Molte volte la responsabilità era lasciata al sistema immunitario dell’individuo, per non aggravare le situazioni. Ma i pazienti necessitavano aiuto, e da qui nasce il movimento del paziente come persona: Il dottore offriva supporto psicologico al malato, instaurava rapporti di amicizia e aiutava a far fronte alla malattia.

La situazione moderna

Nonostante la prevenzione rimanga ancora un metodo troppo sottovalutato per rimanere in salute, oggi la visita dal medico si risolve in aiuti efficaci. In Italia, rispetto a paesi come Cina, Bangladesh o Pakistan, le visite dal medico di medicina generale sono meno frequenti e più durature, con una media stimata di circa dieci minuti. Il tempo medio di visita negli ospedali potrebbe esser ancora più breve, tralasciando l’enorme variabilità. Come facciamo in così poco tempo a stabilire un buon rapporto medico paziente?

I modelli scientifici del rapporto medico-paziente

In una pubblicazione scientifica del 1992 E.Emanuel e L.Emanuel descrivevano quattro modelli di relazione medico-paziente, aggiungendone altri due – quello deliberativo, e quello interpretativo– alla situazione del dibattito alla fine del 1900, basato su una falsa dicotomia: è il medico o il paziente a decidere?

Nel modello paternalistico il medico si assicura che il paziente riceva l’intervento migliore per la sua salute: il paziente sarà poi grato al medico, anche se non è d’accordo al momento della decisione. In questo modello il medico ha l’obbligo di proteggere la salute indipendentemente dalle preferenze dei pazienti, che è assunto abbiano valori simili a quelli dell’operatore sanitario. Il modello paternalistico è stato in passato il più criticato, in quanto nega che il paziente possa avere valori diversi che competono con quello di salute. Come contrapposizione nacque il modello informativo, che ribaltava la situazione ponendo la decisione totalmente nelle mani del paziente: il medico diventa un tecnico il cui obbligo è esporre informazioni esatte, per poi fare un passo indietro e aspettare la decisione da implementare. Il modello informativo si basa sulla nozione errata secondo la quale possiamo trarre conclusioni morali da fatti scientifici e per di più crea un rapporto distaccato ed estraneo tra l’operatore sanitario e il paziente.

Un’ultima critica al modello informativo è il presupposto che i valori del paziente siano fissi e immediati; noi sappiamo che i valori umani sono dinamici, cambiano nel tempo e nelle circostanze. Qui si inserisce il modello interpretativo, che oltre a fornire probabilità, benefici e rischi, aiuta il paziente a trovare i suoi valori: il medico diventa un consigliere, simile a quelli associati ai capi di stato. Il problema, secondo gli autori, è la richiesta ai medici di qualcosa per cui non sono preparati, ovvero l’interpretazione di valori: il risultato è spesso una deviazione nel vecchio modello paternalistico.

la soluzione: il modello deliberativo

La decisione finale dovrebbe esser frutto di una collaborazione più che una decisione totale di una delle due parti. Con questa premessa si inserisce l’ultimo il modello, il preferito dagli autori, il modello deliberativo. Dopo aver esposto le informazioni, il medico considera i valori del paziente, che a differenza dei modelli di prima, qui possono esser soggetti a revisione e discussione morale; il rapporto è quello di un dialogo, in cui il medico è un amico, che tiene a mente le tue preferenze e vuole il meglio per te. Il suo compito è di convincerti su quali siano le decisioni migliori da prendere. In questo modo, una volta aver ragionato criticamente sulle sue volontà, il paziente decide in autonomia.

Come affermano gli autori stessi, i modelli proposti rimangono astrazioni che non corrispondono ai veri e complessi rapporti medico-paziente. L’idea che il medico, distaccato dalla società, debba fare tutto il possibile per il paziente oggi sappiamo sia solo un antico ideale: a partire dal tempo e dal denaro, i benefici del singolo vanno pesati contro il valore di offrire a tutta la popolazione un equo accesso alla sanità. Fortunatamente, le opzioni proposte dai modelli possono ancora vantare una certa autonomia: il costo di una buona interazione, anche in un tempo limitato, è nulla contro i benefici psicologici e terapeutici che offre.

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