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La ricerca che trema

 

di Giovanni Cervi Ciboldi

 

Nessuno stato ha mai visto una crescita economica e sociale duratura senza un apporto sostanziale della ricerca scientifica e della cultura nazionale. Non è pensabile che la ripresa dell’economia avvenga al netto del possibile apporto della ricerca.

L’articolo 19 della riforma Gelmini subordinava la possibilità di accesso ai corsi di dottorato a non meglio chiarite “esigenze dell’amministrazione”, mutando di fatto quello che prima era un diritto in una concessione statale, precludendola inoltre a chi già può fregiarsi della nomea di “dottore di ricerca”.

Le borse di dottorato si sono così ridotte negli ultimi quattro anni del 25%, passando dalle 5553 della stagione 2008-2009 alle 4112 dell’anno accademico 2011-2012. Nell’ultimo anno, inoltre, i precari della ricerca si sono più che dimezzati, passando da 33000 a 13400. Di questi, secondo l’ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani), l’85% sarà costretto ad abbandonare la propria attività senza poter disporre di alcun tipo di ammortizzatore sociale.

Una ecatombe che lascia il dubbio sull’effettiva riuscita della realizzazione normativa scaturita dalla oggettiva preoccupazione che ai trasferimenti statali non seguissero risultati soddisfacenti.

L’associazione ha così chiesto al MIUR un provvedimento urgente in cui siano incluse tre misure: l’abolizione delle tasse per i dottorandi senza borsa, lo sblocco dei turn over e l’estensione degli ammortizzatori sociali alla categoria.

Tutto questo durante il voto al senato del DDL Semplificazioni, contenente un emendamento che di fatto abbatte il principio – introdotto nel 2007 su proposta dei senatori Ignazio Marino e Rita Levi Montalcini e introdotto nel 2007 – della peer review, attraverso il quale i ricercatori al di sotto dei 40 anni giovavano di una valutazione separata condotta da una commissione di revisione formato da ricercatori italiani all’estero. Il ministro Profumo ha però promesso la reintroduzione di tale principio, semplificato però nei meccanismi di gestione.

Al di là della constatazione della evidente crisi patita dal settore della ricerca italiana, rimangono aperte le questioni che ne stanno alla base, a partire dall’instaurazione di un sistema di regole imperniato su tre punti: rendere maggiormente produttivo il sistema, far si che i prodotti della ricerca italiana arricchiscano le imprese nazionali e non quelle estere,  incentivare i ricercatori a rimanere in patria. Sono infatti tremila i ricercatori italiani che ogni anno si muovono verso altri paesi, dei cui risultati usufruiranno imprese estere. Non solo un danno dal punto di vista culturale e intellettuale quindi, ma anche un danno economico, quantificato in 1 miliardo e mezzo di euro ogni 12 mesi.

Come risolvere questa situazione? Se i soldi sono pochi (o meglio: se si è scelto di concedere poco e male i fondi alla ricerca) allora non è più possibile non premiare, largamente, gli atenei virtuosi e le personalità più produttive, rendendo di fatto obbligatoria la concentrazione della ricerca italiana in poli culturali ben definiti. Già l’intenzione di abolire il valore legale del titolo di studio va in questa direzione: un ulteriore approdo alla realtà e a un sistema in cui il merito sia effettivamente una discriminante non potrebbe non subordinare la spesa pubblica a un preventivo discernimento tra scialacquatori (o incapaci) e realtà dinamiche e irreprensibili.

Una cosa appare però evidente: anche qualora un processo di razionalizzazione come quello descritta sopra avvenisse, rimarrebbe comunque il nodo dell’insufficiente entità finanziamenti. Lo stato, ora come ora, non è economicamente in grado di imprimere da solo la spinta decisiva per rilanciare la ricerca italiana sul piano internazionale. Non con competitori affamati come quelli che vengono dall’oriente o, per restare in ambito europeo, dai paesi teutonici. Una razionalizzazione, infatti, sebbene meritoria, ma non comunque risolutiva: ad oggi dove c’è Stato c’è spreco, e anche ammettendo la possibilità che per una volta il pubblico rinunci ad ingurgitare il 36% della spesa solo per far girare i suoi ingranaggi arrugginiti, lo stato rimarrebbe comunque non in grado di finanziare una ripresa.

Riassumendo, allora, rimangono tre cose da fare. La prima è razionalizzare i costi e i trasferimenti agli atenei virtuosi per creare poli di ricerca che concentrino tra le proprie mura le migliori personalità sulla piazza. La seconda è di razionalizzare i costi dello stato, per approdare a una spending review che tagli le gambe ad ogni trasferimento improduttivo, in modo da ottenere – a costi invariati per il pubblico – maggiori trasferimenti e maggiori stipendi per questi ricercatori, incentivandoli quindi a rimanere in patria facendo concorrenza alle nazioni che li chiamano fuori dai confini offrendo somme più alte di quelle che il pubblico è oggi in grado di assicurare. Terzo, affinché la ricerca sia in grado di traslare la sua innovazione culturale sul piano di una effettiva crescita economica, occorre legare la ricerca agli interessi delle aziende che di essa si possono avvantaggiare. Perché se lo stato ha il compito di finanziare equamente ogni possibile ambito, è altrettanto vero che a parità di trasferimenti, la – parola difficile – “remuneratività” delle ricerche non può affatto considerarsi identica in tutti i settori.

Per fare tutto ciò servirebbero montagne di soldi che lo stato, in questo momento, anche qualora potesse, non appare affatto disposto a concedere. E dove si possono trovare i fondi necessari per questa rivoluzione, l’unica effettivamente in grado di imprimere una svolta vera al mondo della ricerca italiano? Squilli di tromba e rullate di tamburi, occorrerebbe aprire le università ai privati.

 

 

 

 

 

 

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