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Noi, poveri scienziati della comunicazione – Guido Legnante risponde al Ministro Gelmini

di Francesco Iacona

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Facoltà e corsi di studio in Scienze della Comunicazione sono una novità dell’ultimo decennio. Periodo troppo recente, forse, perché l’opinione comune possa farsi un’idea precisa di cosa si occupi questo nuovo ambito di studio.
Purtroppo, però, queste giovani facoltà non godono di buona fama. Ormai, quando mi chiedono cosa studio e rispondo «Scienze della Comunicazione» mi sento ripetere sempre le stesse domande: «Ovvero? Cioè? Cosa studi di preciso? Ma vuoi lavorare in tv?». A causa di questa diffusa ignoranza su cosa siano realmente i corsi in comunicazione, mi è spesso anche capitato di sentir definire la facoltà in cui studio come la “facoltà delle veline”, “scienze della disoccupazione” o “scienze delle merendine”.
Pregiudizi negativi, purtroppo, arrivano non solo da studenti di altre facoltà, ma anche da chi dovrebbe essere ben più informato di loro. In alcune occasioni televisive, infatti, Bruno Vespa (Porta a Porta, 19/01/09) e il Ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini (Ballarò, 11/01/11) hanno consigliato ai ragazzi in procinto di andare all’università, di non iscriversi «a facoltà inutili come quelle in Scienze delle Comunicazioni, ma di puntare sulle facoltà scientifiche». A parte il fatto che si dice Scienze della Comunicazione e non “delle comunicazioni”, gli studenti e i laureati di queste facoltà non ci stanno e perciò hanno risposto fondando l’“Associazione Dottori Scienze della Comunicazione Italiana” (http://www.adsdc-italia.it/).
Io in quanto studente di Scienze della Comunicazione all’Università di Pavia e redattore di Inchiostro, ho voluto chiedere il  parere del prof. Guido Legnante, Presidente dei corsi di laurea, rispettivamente triennale e specialistica, CIM (Comunicazione, Innovazione e Multimedialità) e CPM (Comunicazione Professionale e Multimedialità).

Inchiostro – Lo scorso 11 gennaio, a Ballarò, il Ministro dell’Istruzione, Dell’Università e della Ricerca Mariastella Gelmini ha pronunciato le seguenti parole: «[…] Abbiamo pensato la riforma della scuola superiore in modo che dia peso specifico all’istruzione tecnica e professionale perché riteniamo che piuttosto di tanti corsi di laurea inutili in Scienze delle Comunicazioni o in altre amenità servano profili tecnici competenti che incontrino l’interesse del mercato del lavoro». Poi rispondendo al dissenso del conduttore Giovanni Floris, giustifica le sue parole sostenendo che «i dati confermano che questa facoltà non aiuta a trovare lavoro e che sono richieste lauree di tipo scientifico o lauree che in qualche modo servono all’impresa».
In un’altra occasione, due anni fa, Bruno Vespa a Porta a Porta disse a dei futuri studenti universitari: «Abbiamo bisogno di ingegneri e di tecnici importanti. Una sola preghiera: non vi iscrivete a Scienze della Comunicazione! Non fate questo tragico errore che pagherete per il resto della vita.»
Lei, Professor. Legnante, in quanto Presidente di CIM e CPM, cosa si sente di rispondere alla Gelmini, a Vespa e a tutti quei pregiudizi nati nei confronti delle facoltà in comunicazione?

Che se dovessi parlare con Gelmini o Vespa invece che con Inchiostro, anzitutto chiederei loro se vogliamo parlare di cose serie oppure di luoghi comuni: amenità per amenità, vogliamo parlare di cosa si dice dei politici o dei giornalisti? A parte le battute, visto che per fortuna sono a parlare con Inchiostro e quindi si può parlare seriamente, mi sento di rispondere con un punto generale che ha a che fare con la cultura in Italia e con due particolari che hanno a che fare con Scienze della Comunicazione.
Il punto generale è che purtroppo nella nostra cultura nazionale si tende a non capire e quindi a subire acriticamente tutto ciò che ha a che fare con i numeri. Si sostengono le tesi più soggettive senza mai sentire il bisogno di documentarle con prove empiriche. Quando queste ci sono, si sostiene con un sorrisetto che “coi dati si può dire di tutto”, dimenticandosi però che questo è vero anche per le parole.
Il primo punto particolare, se parliamo di dati, è che varie indagini mostrano che i laureati in Scienze della Comunicazione trovano lavoro. Camera di commercio di Milano (indagine Specula), rapporto 2010 mostra Comunicazione in linea con le più “occupazionalizzanti” altre facoltà in generale, non solo umanistiche.
Il secondo punto particolare è che noi (come peraltro i migliori fra i giornalisti e i politici) abbiamo anche la serietà di non fermarci a questo ottimo dato quantitativo. E andando a guardare più nel dettaglio i dati sui nostri occupati emerge che vi è una quota ancora troppo alta di essi che svolge lavori provvisori e con retribuzioni più basse. Il che però, ci dice due cose. Una su Scienze della comunicazione, e cioè che i nostri studenti sono disposti a una retribuzione non alta pur di realizzzare le loro aspirazioni lavorando nel campo della comunicazione. E l’altra sul modello di sviluppo del tessuto produttivo italiano seguito finora (e temo non molto dissimile da quello che è nella testa di Vespa e Gelmini), che è ben lontano dalla information society, la società della conoscenza che caratterizza i paesi decentemente avanzati.

Le parole di Vespa di ormai due anni fa hanno scatenato parecchie reazioni.
Emanuele Invernizzi (docente ordinario allo IULM di Milano) controbatte sostenendo che «la domanda di laureati in SdC è molto elevata e che in tutte le organizzazioni complesse quello della comunicazione è l’unico settore in crescita».
Per Mario Morcellini (Preside della facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università la Sapienza di Roma) «chi agisce nel mondo della comunicazione sa di custodire un potere  forte, di contare su una rendita pregiata e prestazionale molto performativa e sa anche che quelli inerenti al campo della comunicazione non sono mestieri qualunque: sono mestieri che toccano il cuore e la testa delle persone, che perciò esigono altissima responsabilità sociale». Aggiunge, inoltre, che «sembrerebbe quasi che ci sia una paura dei giovani, i quali arrivano con dei saperi, con una passione, con una freschezza di cui il sistema della comunicazione ha bisogno. Per questo, evidentemente, fanno paura a qualcuno».
Reazioni sono giunte non solo dal corpo docente, ma anche dagli studenti e dai laureati, i quali si sono mobilitati e hanno fondato, grazie all’aiuto dei socialnetwork,  l’“Associazione Dottori Scienze della Comunicazione Italiana”.
Lei concorda con le parole di Invernizzi e Morcellini? Cosa ne pensa di questa mobilitazione da parte di studenti e laureati?

Sì, concordo con entrambi gli aspetti: la domanda da parte delle organizzazioni complesse (e non solo) sottolineata da Invernizzi e la responsabilità sociale sottolineata da Morcellini.
La mobilitazione mi sembra doverosa e, confesso, non mi stupisce neanche un po’, dal momento che da sempre vedo negli studenti di Comunicazione dei giovani motivati e consapevoli.

Quali sono i settori lavorativi, principali e secondari, verso i quali un corso in SdC intende orientare gli studenti?

Detto questo, ci sono dei settori specifici verso cui i nostri studenti hanno particolare successo. Il segno dominante è quello della multimedialità: intorno a internet e ai nuovi media, i nostri studenti lavorano nelle relazioni pubbliche (di privati così come di istituzioni ed enti), nell’informazione e l’editoria, nella pubblicità, nella creazione di eventi, nell’analisi dell’offerta e del pubblico, nella ricerca e nello sviluppo aziendale sui temi della comunicazione.
E poi c’è una considerazione più generale. Parto da un esempio personale: fare il professore in università. Una generazione fa, quando ero studente, i più fortunati di noi usavano i PC come delle macchine per scrivere un po’ evolute. Non immaginavamo però che tutte le professioni intellettuali sarebbero state rivoluzionate dalla comunicazione. Ho appena pubblicato un articolo scritto con una collega che sta a 6553km da Pavia (e in mezzo minuto ho trovato questa informazione su un sito che calcola qualsiasi distanza fra due città in tutto il mondo), in cui analizziamo una quantità di dati che sarebbe stato inimmaginabile non dico elaborare ma perfino raccogliere sino a pochi anni fa. Anche se sono a un convegno all’estero posso ricevere tutti i giorni le decine di e-mail con le domande degli studenti e i capitoli di tesi. Sono abitualmente in contatto chat con la nostra segreteria studenti e con le persone con cui sto facendo ricerca, così ci consultiamo sulle questioni immediate senza interrompere le nostre attività con una telefonata … e questi sono solo alcuni degli esempi.
La questione è che forse il mondo di Vespa e Gelmini è ancora il mondo di quando ero bambino e c’erano quei bellissimi libri “cosa farò da grande” in cui il panettiere impastava il pane, il vigile fischiava in mezzo agli incroci, i giornalisti parlavano di politica con i politici e non con le modelle, e così via … oggi invece mi sembra che abbia più senso chiedersi quali professioni non richiedano elevate competenze comunicative. Certo, non è che sempre negli annunci di offerte di lavoro ci sia scritto “cercasi comunicatore”. Ma nella nostra area, vista anche la vicinanza di Milano, una netta maggioranza delle professioni richiede in misura accentuata di comunicare: padroneggiando logica, metodi, tecniche e competenze sui media.

Veniamo al corso di laurea del quale lei è Presidente.
Qual è il ruolo di CIM all’interno dell’Università di Pavia? Qual è la sua quantità di iscritti in media rispetto agli anni scorsi e rispetto alle altre facoltà?

Cim in UniPv è un esempio di come secoli di storia non significhino non avere visione, e anzi diano lo slancio nell’affrontare le questioni del mondo che cambia. All’alba dei corsi in comunicazione Pavia è stata pronta a partire con un corso che ha declinato la comunicazione come aveva senso farlo a Pavia, e cioè approfittando della varietà di saperi disponibili e costruendo un corso di laurea autenticamente interdisciplinare. In giro per l’Italia i corsi di comunicazione (fra cui i non pochi decimati dalla riforma degli ordinamenti) a volte confondevano la comunicazione con la cosmesi di altre competenze, a volte molto settoriali. All’opposto, Pavia ha tenuto dritta la barra sull’obiettivo di offrire saperi davvero interdisciplinari. Cim è molto diverso non solo da un corso di laurea “in” ma anche da un qualsiasi corso di laurea “di” ciascuna delle Facoltà che lo compongono.
Quanto agli iscritti, data la presenza di laboratori informatici Pavia ha scelto di proporre un corso in Comunicazione a numero programmato per cui i dati sui nostri iscritti risentono di questa caratteristica. Il numero programmato per i nuovi iscritti è 180: quest’anno, considerando anche i passaggi di facoltà, abbiamo superato i duecento nuovi iscritti alla triennale, a cui si aggiungono circa cinquanta studenti all’anno di laurea magistrale. Non saprei dire esattamente come va il confronto con le altre facoltà, perché penso che i nostri studenti siano solo in piccola parte acquirenti dello stesso “mercato”, dato che essi chiedono con chiarezza Comunicazione, e non “un po’ di” delle facoltà.

Come si pone CIM rispetto alle altre facoltà in comunicazione? Per cosa si differenzia?

Un punto generale e uno particolare.
Punto generale: studiare a Pavia presenta una favorevolissima combinazione fra presenza di strutture, numerosità ragionevole degli studenti e disponibilità dei docenti. Si può sempre migliorare, sia chiaro, ma mi sento di dire che la gran parte dei nostri docenti ha degli ottimi tempi di risposta alle e-mail e un’ottima qualità nel ricevimento studenti.
Punto particolare: torno sull’aspetto interfacoltà del nostro corso in Comunicazione. I nostri studenti vanno da Lettere a Ingegneria passando per Giurisprudenza, Scienze politiche, Economia. Pensi che già all’interno dei corsi offerti all’interno delle singole facoltà gli studenti maturano le loro preferenze, con settori in cui si sentono più forti ed altri in cui fanno più fatica. E noi a Comunicazione li sfidiamo a essere capaci di costruire un sito internet così come di analizzare un testo letterario. Non a caso, quando in seduta di tesi guardiamo i voti ottenuti negli esami, osserviamo spesso che gli studenti hanno avuto un percorso molto differenziato: dagli “smanettoni”, bravissimi negli esami di ingegneria e più in difficoltà con i corsi umanistici, ai “mouse di biblioteca”, bravissimi negli esami letterari più che con numeri e byte. Questa è la nostra ricchezza: siamo convinti che il mondo produttivo cerchi dei laureati in comunicazione a 360°.
Questi due aspetti si riflettono anche sulla qualità delle tesi, anche triennali. Non a caso anche nella laurea triennale abbiamo mantenuto la presenza di un correlatore. Spesso gli studenti chiedono al correlatore consigli e assistenza già durante la stesura, per cui ci troviamo tesine che formalmente sono da “soli” sei crediti che sono dei veri e propri lavori di ricerca molto simili alle tesi tradizionali. Il che anche per un docente è particolarmente stimolante: personalmente trovo spesso molto interessante fare da “seconda voce” nel consigliare uno studente che magari parte da una materia ingegneristica o al contrario letteraria ma vuole tenere un occhio aperto su cosa le scienze sociali possono dirgli sull’argomento che si è scelto.

Saprebbe comunicarci le cifre, in percentuale, della quantità di laureati  CIM e CPM che trovano lavoro dopo la laurea? E per quanto riguarda i laureati in SdC in Italia?

Una ricerca di qualche anno fa indicava che oltre nove studenti su dieci avevano lavorato a un anno dalla laurea. Stiamo cercando di acquisire dati più recenti, il che è particolarmente urgente data la crisi che sta investendo tutti i settori produttivi. Certamente nel mezzo della pianura padana è più facile trovare occupazione nella comunicazione che in altre parti d’Italia: per questo, nonostante i già ottimi dati, stiamo lavorando per migliorare ancora la qualità di questa occupazione.

CIM da quest’anno è passato al nuovo ordinamento con un nuovo piano di studi, nuovi corsi e un nuovo nome (da Comunicazione Interculturale e Multimediale a Comunicazione, Innovazione e Multimedialità). Cosa cambia rispetto a prima?

L’occasione è stata appunto il cambio di ordinamento e i decreti (penso al noto “decreto 17”) allora in arrivo. Le riforme ci hanno dato l’occasione (così come per la laurea magistrale che da Ecm è diventata Cpm, Comunicazione professionale e multimedialità) per semplificare e concentrare la nostra offerta didattica su un numero più limitato di corsi (abbiamo dovuto abolire i curricola in cui precedentemente il corso era articolato). E’ ridotta l’ampiezza dell’offerta ma abbiamo mantenuto e ancora più focalizzato i nostri obiettivi di sempre, cioè quelli di offrire un vero corso di laurea in comunicazione interfacoltà. Non abbiamo potuto espandere l’offerta di contratti, mentre fra i corsi esistenti e offerti dalle facoltà abbiamo semplificato privilegiando quelli che avessero a che fare con i temi con la comunicazione e fossero (invece che mutuati: ne abbiamo di ottimi ma non sempre la cosa migliore è offrire lo stesso corso in una Facoltà e a Cim) pensati per Cim.

Quali sono i miglioramenti in ambito didattico? E in che modo CIM cerca di introdurre gli studenti all’interno del mercato del lavoro?

Focalizzare sempre più i corsi sulla comunicazione ha ancora migliorato la già molto buona collaborazione fra i docenti di corsi anche molto diversi di cui parlavo prima. Stiamo lavorando molto per rafforzare le lingue, la componente operativa dei corsi, gli scambi internazionali, la qualità delle offerte di stage. Da noi lo stage è obbligatorio nel piano di studi sia del triennio che della magistrale: la presenza fra i docenti di vari professionisti della comunicazione e di molti docenti “strutturati” attenti al mondo del lavoro fa sì che già in questi anni abbiamo spesso offerto ottimi stage agli studenti.

Ecco il link con le dichiarazioni del Ministro Gelmini a Ballarò: http://www.youtube.com/watch?v=aABvHlUaQ84

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