Concorsi

3°. Peste – Elena Sofia Capra

di Elena Sofia Capra

La porta della cantina ha la chiave piantata nella serratura – nessuno la girerà mai, aperta e cedevole. Nella cantina, arrampicata sulla scaletta di uno scivolo smontato, la bambina respira e ama leggere. Attorno a lei divorate svaniscono mano a mano le pile di libri e gli scatoloni in cartone, che la madre riordina settore per settore, ricordo per ricordo, nelle prime ore del giorno – prima che il calore della soffocante estate interrompa i lavori che, dalla casa disarticolata portata con sé nel trasloco, devono costruire le nuove stanze dove crescerà la bambina. La cantina gode di una frescura che probabilmente sarà pagata con il gelo d’inverno, ma la bambina lo ignora, e nell’estate dei suoi otto anni ha tutt’a un tratto scoperto, forse perché il cambio di città l’ha privata dei primi amici, ma forse meno convenzionalmente perché è scoccata l’ora che ne farà la donna che deve diventare, una superiore libertà nella lettura – ha tutt’a un tratto compreso che, al di là delle pagine di quaderno macchiate di analisi grammaticale dalla sua grafia ondivaga, degli squallidi piccoli testi da leggere ad alta voce per compito con la sua pronuncia poco precisa, quella capacità magica che ha appreso da meno di due anni è la sua arma per il resto della vita, la fa sua con una
sete insaziabile ora che si è rivelata. Due libri ama in particolare, e se il Giardino segreto è solo una sua vita raccontata da altri, l’altro l’affascina senza motivo. È un libro dalla copertina blu appena imbottita, generosamente illustrato, che si propone con non troppa modestia di guidare il bambino attraverso la storia dell’umanità. Ipnotiche la inghiottono le immagini di cavalieri e scoperte, le cupe pagine che parlano di bombe e figure fantasmatiche in pigiami a righe dietro linee orizzontali; ma una pagina l’ha catturata, le due scene segretamente conturbanti attirano le sue dita in più ore del giorno, le si mostrano agli occhi prima che lei lo decida. In alto il titolo recita “La peste a Milano”, l’anno è il 1630 ma il libro lo tace, e tace in verità tutto, e nelle immagini colorate gli uomini paiono semplicemente accasciati nel sonno per le vie d’una città o in un giardino chiamato lazzaretto, i corpi intatti. La bambina dalla morte è la creatura più lontana, e ferma davanti ai castelli medievali ormai ha capito che deve trattenersi dallo scorrere velocemente fino a quella pagina come da un desiderio che la madre ha proibito. E l’immagine all’improvviso si presenta ai suoi occhi anche se il libro è lontano, la mente, i sogni se ne ingombrano, e l’autunno si fa aula della scuola nuova, e quel libro imbottito di blu non lo apre da mesi, ma nella biblioteca di classe ne trova un altro, un libro grande e bianco con illustrazioni da adulti di scienza che spiega le grandi invenzioni dell’umanità. Tra dieci anni di fronte allo schermo del computer di quel libro le tornerà in mente una descrizione incredibile d’un teatro allagato per ricreare la scena di un’immensa nave affondata, in un film; ma oggi tutto di quel libro cerca di dimenticare, perchè in un’altra pagina ha trovato una lunga linea del tempo, di nuovo la Storia, e vi ritorna quella parola. Peste. La bambina quella notte non dorme, le palpebre chiuse non sono che uno schermo per proiettare quei corpi arresi alla morte, eppure non sa aprirle nella camera buia; e la stessa lotta si ripete dopo il viaggio a Firenze durante il quale ha combattuto la nausea del treno e dell’indesiderata novità immergendosi nella guida turistica, e in quella guida ha letto dei giovani del Decamerone (a casa il Decamerone è un libro grosso color sangue che ora le ferisce la vista). Quella parola dunque non bisognerà pronunciarla né leggerla mai più, e con serietà disperata ne parla alla madre in un mattino ozioso, perchè quella parola non la dovrà sentire mai più, e sogna che un dottore possa estrarle dalla mente la pagina che nel frattempo ha strappato dal libro poi nascosto, e con un piccolo taglio nel sonno guarirla. Ma la madre non le ha proposto nulla del genere, ed è tardi ormai, in quarta elementare il sussidiario di storia arriva fino alla Rivoluzione francese, e la bambina impara che i suoi nemici si chiamano Morte Nera nel Medioevo, e lanzichenecchi e Manzoni nell’età moderna; la madre è riuscita a calmarla incollando adesivi rosa sulla Parola, e per questo censura i suoi libri di scuola prima che lei li apra. La bambina cresce in altezza e ora ama andare a scuola, alle medie, e di quegli adesivi rosa e verdi sul suo libro di storia quando a marzo arriva il suo primo nemico sa di doversi vergognare, e durante le lezioni li copre con penne e matite sparse ad arte sul banco, e approfitta dei lunghi capelli per turarsi le orecchie, e lo studio però le proietta di nuovo sulle palpebre chiuse le immagini arricchite di nuove notizie e terrore. In seconda media tra i libri spunta una letteratura italiana, e pagine intere si coprono di rosa, nei titoli e nei sommari. La giovane donna che regge tra le braccia una bimba livida e vestita da angelo si unisce alle scene della sua insonnia; i compiti sui Promessi sposi li ha svolti con le lacrime agli occhi d’altronde, presagendone il prezzo che poi paga di notte. La ragazzina sta diventando ragazza, dal portone del suo liceo classico esce con gli occhi lucenti quando nella prima versione di greco ha preso il primo dieci, e la umilia scoprire che ora i suoi nemici si chiamano anche Pericle e Tucidide, e che se l’insegnante legge le parole del secondo deve ancora sia pure arrossendo turarsi le orecchie, e all’interrogazione nel dire quella Parola essa ha nella sua bocca un sapore straniero, e le rimbomba di ripugnanza nella testa, anche se di notte talvolta si sveglia soltanto una volta, ed è solo una mezz’ora che passa con gli occhi serrati e l’orrore addosso, senza sapere se è un sogno il suo terrore o è reale, e se nel sonno l’opprime l’incubo di risvegliarsi in una città veramente appestata, o solo la convinzione di dover provare terrore. Per la letteratura prova ancora la sua sete di bambina, ma è grande la sua gratitudine, perchè la quinta ginnasio avanza a lunghi passi e la professoressa di italiano legge invece con estrema lentezza i Promessi Sposi – al capitolo ventotto mai non si arriverà, e senza fare la prova può immaginare d’essere guarita. E davvero a giugno l’Innominato si è convertito appena, ma la gratitudine sa ora di amaro, sembra la condanna a una paura non certo invalidante ma inspiegabile. E il libro coperto d’appunti solo fino al capitolo ventitré e poi nudo e bianco e minaccioso scivola all’ultimo in valigia. Fuori piove nel borgo di mare, la giovanissima donna sente in sé come un tremito, e si stringe nel divano letto che l’ospita e quel libro lo riapre. Incontra di nuovo la madre con la bambina morta stretta tra le braccia, lacrime le rigano gli occhiali e privano anche quelle pagine della cartacea verginità. Di notte un prurito al fianco sinistro la sveglia per l’orrore, la fronte umida e un vuoto di morbo in fondo ai visceri, lei conosce la resa e sa che aspetterà la prima luce con le palpebre serrate, stravolta e sconfitta. E invece apre gli occhi. L’orologio le giurerebbe che è l’alba, la camera addormentata è affondata nel buio, il fianco deturpato di Rodrigo occupa ancora tutto il mondo possibile. Ma attraverso il buco della serratura brilla timida eppure evidente la luce della realtà, e la porta si può spalancare.

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