Concorsi

Eravamo come gatti sui tetti

Racconto di Giulia Mascia – quarto classificato al Concorso Letterario “Blu” 2021

Di soldi noi non ne avevamo mai. Non ce li davano, e non li chiedevamo; eravamo cresciuti con la canzone della fame nelle orecchie. Ci incontravamo ogni giorno dopo scuola alla stazione, non so perché – il treno non lo prendevamo. Stavamo là, appesi pigramente a una panchina a parlare di niente. Una volta Sara disse:
– Oppure potremmo andare al mare.
– Ora?
– Sì. Quanto hai nello zaino?
– Non lo so – Leo scosse la testa. – Solo i tre euro della merenda e una canna. Voi?
Ma io dissi: – Io non ho soldi.
E Yasmin: – Neanche io.
– Non dobbiamo per forza avere i biglietti – disse allora Sara.
E dalla panchina guardammo la stazione.

Di solito, non ci entravamo neanche. Non avevamo mai pensato di farlo, perché poi. Però ce l’avevamo sempre lì dietro, come una mamma, come la fame. Ricordo che quel giorno pioveva, io ero triste. È così, quando il cielo piange il mio cuore si gonfia di pioggia e mi pesa nel petto. A quei tempi poi sembrava che tutto dentro di me fosse pesante, molto pesante, come se avessi l’anima fradicia e il mio corpo faticasse a portarsela in giro. Mi rivedo a trascinare i piedi fuori da scuola, con le mani nelle tasche della giacca – la scuola durava nove mesi ma nei miei ricordi fa sempre freddo. La vita era tutta sfumata, allora, su uno sfondo di nebbia si stagliava il contorno quadrato dei giorni di scuola, un recinto di sei ore, incontestabile come una verità rivelata.
Quando arrivavo, Yasmin era sempre sulla panchina che mi aspettava. Io da dietro guardavo l’ovale del suo hijab, un poco deformato dove i capelli raccolti premevano contro la stoffa; qualcuno ti vuole bene, sembrava ricordarmi. Eravamo amiche da quando eravamo piccole, che dormivamo così vicine che la mattina non sapevo più quali capelli fossero i suoi e quali i miei. Talvolta l’infanzia mi sembra un unico lungo pomeriggio estivo nel suo cortile, con il sole sempre in un angolo del cielo, che ci dice “Finite di giocare e poi tramonto”.
Suo papà spesso scendeva anche lui e giocava con noi. Era egiziano e noi ridevamo perché d’estate portava “il vestito” anche se era un uomo; lui rideva e ci diceva che in Egitto era normale. Gli piaceva tantissimo parlare; aveva studiato filosofia e ci raccontava storie divertenti dell’università. Leggeva sempre, noi andavamo apposta a disturbarlo. “Leggi ancora Níce?”, chiedevamo, e lui rideva. La mamma di Yasmin invece ci faceva paura, per come urlava quando si arrabbiava; noi scappavamo a nasconderci in cantina. Anche a lei piaceva parlare, ma io a volte non capivo cosa diceva perché era siciliana e aveva un dialetto strano.
– Ehi – salutai Yasmin quel giorno, ma lei non si girò a guardarmi.
– Ehi.
Al liceo la tormentavano. Da piccole a scuola eravamo sempre insieme, e poi era la scuola del quartiere – eravamo tutti dei bambini strani e tristi. Ora eravamo grandi, e in classe sua lei era l’unica persona con il velo. Non me ne parlava, ma sapevo che erano cattivi; si arrabbiava perché le chiedevano se mangiava il couscous e a lei invece piacevano la parmigiana e i cannoli.
– Successo qualcosa? – le chiesi, ma in quel momento arrivò Leo.
– Non mi hai aspettato – mi disse.
Leo a me ricordava certi animali selvatici piccoli piccoli e sempre pronti a scattare; era lungo e nervoso, tutto fasciato di tendini sotto la pelle. Lo avevo conosciuto a scuola, ma non faceva la mia classe.
All’intervallo vedevo sempre il suo corpo di donnola appoggiato ai muri e prendemmo a sorriderci furtivamente. Io credo ci fossimo riconosciuti subito, o quasi, per la tristezza che avevamo negli occhi, o per il modo in cui tenevamo le mani nelle tasche, senza sapere dove metterle. Dentro scuola ora non ci vedevamo mai, perché da quell’anno eravamo su piani diversi o per qualche altra regola scema, ma a me alleggeriva il cuore sapere che da qualche parte c’era anche lui.
I miei compagni li disprezzavo tutti, perché erano ricchi e perché erano cattivi. Leo invece aveva i vestiti lisi come me, e quando faceva cose cattive poi si dispiaceva.
– Scusa – gli dissi. – Come stai?
Ma: – Di merda – rispose; e si stirò sulla panchina vicino Yasmin. Io ero convinta che era innamorato di lei ma non dicevo nulla.
– Potremo piangere tutti insieme – disse Yasmin.
– O ubriacarci – disse Leo.
Leo aveva appena scoperto che si sentiva grande se beveva l’alcol o se litigava con suo padre, e allora faceva le due cose di continuo. Lo incontravo a volte la mattina dietro scuola, dove c’erano il muro sporco e i bidoni, come dove abitavamo noi. Era sempre lì presto presto ad arrotolarsi una sigaretta tra le lunghe dita, e a piangere, ogni tanto. “Oggi ho matematica” mi diceva quando mi vedeva, o “Che facciamo stasera?”, o “Lo odio quello stronzo”.
– Non bevo – gli ricordò Yasmin, e lui scrollò le spalle.
– L’ho appena lasciato – disse Sara, e ci comparve alle spalle. Lo faceva spesso, le piaceva l’entrata a sorpresa, era sempre in ritardo.
– Cosa? – le disse Leo.
– Tosca – disse Sara, – l’ho lasciato.
Sara abitava di fronte a me; da che ricordo, i suoi capelli biondi li ho sempre visti. La sua camera aveva la finestra di fronte alla mia. Se avessimo provato ad allungare le nostre braccine da bambine ci saremmo toccate le mani, ma allora mi era antipatica. Aveva tutti e due i genitori, che pensavano che fosse perfetta e le avevano dipinto la stanza rosa insieme. Lei stava sempre in casa a studiare e quando dalla finestra guardava me e Yasmin giocare noi non la invitavamo mai. Forse si sentiva sola, ma anche noi ci sentivamo sole, però in un altro modo.
Fu da ragazze che diventammo amiche. Lei si cambiava sempre davanti alla finestra, anche quando si accorgeva che la stavo guardando – forse intuiva che mi piaceva. E poi d’estate fumava sempre alla finestra perché i suoi non dovevano saperlo, così il fumo entrava tutto in camera mia; allora io andavo a dirglielo, e avevamo una scusa per parlare. Lei poi piangeva anche tanto, alla finestra, perché i suoi le dicevano sempre che stava prendendo peso sui fianchi e doveva mangiare meno. “Ho troppe forme, secondo te?”, mi chiedeva muovendosi nelle camicie da notte estive, sottili. Aveva sempre qualche ragazzo e ne stava anche sempre lasciando qualcuno.
– Sei triste? – le chiese Yasmin.
– Un po’ – disse Sara.
_ Anche noi – dissi io.
Dalla panchina guardavamo gli altri ragazzi, macchie di colore che si sbavavano nella pioggia come un quadro. Quando eravamo insieme era diverso essere tristi, più leggero – non è che la vita ce la dimenticassimo, ma insieme sapevamo riderne.
– Dicevamo che potremmo ubriacarci – ritentò Leo.
– Oppure potremmo andare al mare – disse Sara.

Di soldi, noi non ne avevamo mai. Anche quelle eterne notti calde d’estate, in cui si usciva facendo la lotta con l’umidità, così densa che sembrava fosse lei a tenerci insieme; anche in quelle notti, quando dicevamo “Prendiamo una pizza?”, poi alla fine dividevamo una lattina in quattro. Anche quando tutti i miei compagni andavano a un concerto o a una serata, io stavo con i miei tre amici a ballare in mezzo alla strada alle quattro di notte, e correvamo via quando una macchina pigra, passando, ci scacciava dal
selciato. Eravamo nati e cresciuti nel bisogno, nella mancanza, nell’assenza; la città tutto l’anno era in mano ai ricchi – poi si svuotava. Noi allora la popolavamo di notte, d’estate, alla stazione; ci allungavamo silenziosi sui mattoni, eravamo come i gatti sui tetti.
Così anche quel giorno anche se avevamo detto “Potremmo andare al mare”, alla fine non ci andammo, perché i soldi non li avevamo, e forse neanche il coraggio di prendere quei treni senza biglietto, o forse ci bastava sognarlo il mare.
Così restammo lì, su una panchina gocciolante dietro la stazione, a sognare di essere altrove e a fumare una canna. Così era quello il nostro mare, lo era il blu infinito di quella leggerezza che trovavamo stando insieme. Non era vera non era falsa non era illusione; esisteva, un attimo dopo non sarebbe più esistita e noi lo sapevamo. Ma esisteva, blu come il mare, in un solitario prezioso istante.

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