ConcorsiLetteratura

A mio padre

Vi proponiamo “A mio padre”, scritto da Luca Brigada Villa, racconto che si è particolarmente distinto tra tuti quelli pervenuti per il concorso letterario “Inchiostro a volontà – Dopo la terza birra”, indetto quest’anno da Inchiostro, il giornale dell’Università.

 

Ho sempre pensato che solo i farmacisti sapessero leggere le brutte calligrafie. Mi sono dovuto
ricredere: sul quadernino del bancone del bar l’accozzaglia di segni sembrava produrre una
maledizione scritta in geroglifico, ma Paolo ci leggeva titoli di canzoni e cantanti. Tra un caffè e
l’altro, aggiornava la coda dei brani su Spotify, con le ultime aggiunte dei clienti. Quando il barattolo
con le monete si riempiva, lui lo svuotava nel sacchetto che stava nell’armadietto sopra la macchina
del caffè. Aveva sempre fatto ascoltare musica nel suo bar: preparava CD con le canzoni che più gli
piacevano, le stesse che piacevano a quelli che diventarono suoi clienti, le stesse che iniziarono a
piacere a quelli che lo erano già. Paolo era anche una sorta di accumulatore seriale: masterizzava
continuamente CD e li portava al bar per farli ascoltare, poi li teneva lì nello scaffale. Un giorno
venne il momento in cui la comproprietaria del locale lo mise di fronte ad una scelta: o noi e i clienti
o i dischi. E l’aut aut pesava molto di più, perché chi l’aveva messo di fronte ad un bivio prima di
essere la sua socia in affari era (soprattutto) sua moglie. Inutile dire che se mi trovo ancora qui,
davanti a questo bancone, con una matita in mano, mentre sto per scrivere il titolo di una canzone di
Tracy Chapman è perché Paolo, davanti a quel bivio, ha scelto di proseguire la sua vita lavorativa e
(soprattutto) quella coniugale.
Funziona così: quando qualcuno scrive una canzone sul quadernino mette dieci centesimi nel
barattolo e Paolo mette il brano in coda. Da quando aveva iniziato a proporre questa cosa ai clienti,
quel posto chiamato “La taverna” aveva iniziato a comparire nei discorsi della gente come “Il juke-box”.
Non gli dispiaceva, anzi sì: gli dispiaceva non aver pensato prima a quel nome che mandava la
sua mente alle estati passate a riempire di monetine quei distributori di musica. Erano le estati del
Festivalbar, quando, come fossero voti, contavano le volte che una canzone passava nei juke-box, appunto.
C’era una bella atmosfera in quel posto. Non mi ricordo nemmeno come ho fatto a scoprirlo, so solo
che dopo esserci stato la prima volta era diventato uno dei miei preferiti. Poi sono successe tutte
quelle cose che succedono nei posti che diventano miei: ho iniziato a notare la gente che, come me,
passava molto tempo lì e dopo un po’ ci sono stati i primi saluti, quelli che si fanno le persone che si
incontrano in un posto diverso dal solito e vogliono dimostrare di conoscersi. Così, quando
incontravo altri clienti abituali fuori dal bar, li salutavo con un cenno del capo, a volte anche a voce.
La clientela non poteva definirsi omogenea: una comunità molto varia, fatta di gente che vuole
scegliere la musica da ascoltare e di gente che vive ascoltando le scelte degli altri.
Arrivò la prima volta in cui mi inserirono in una discussione.
– E tu cosa dici, ragazzo? Hai intenzione di stare lì ad ascoltare in eterno senza dire nulla?
Era stato il proprietario a chiedermi di parlare; la classica situazione da bar: uno aveva detto che
sarebbe riuscito a colpire il centro del bersaglio con la freccetta entro tre lanci e gli altri avevano
scommesso che non ce l’avrebbe fatta. In palio c’erano dieci canzoni gratis e un paio di birre.
– Dico che non fa centro. E rilancio; dopo il terzo tiro ci provo io: un tentativo, se vinco mi prendo
il suo premio, se perdo offro il prossimo giro.
Non so cosa mi sia capitato quel giorno: era come se quella domanda mi avesse legittimato a parlare,
come se mi avesse finalmente inserito in un contesto che da tempo osservavo da fuori e in cui da
tempo volevo entrare. Solo che non c’era stata ancora l’occasione giusta. Quella sera parlai e la cosa
piacque. Nessun centro, come previsto. Era il mio turno: il rumore sordo dell’ago piantato nel
sughero fece eco in tutta la stanza, la freccetta aveva perforato il cerchiolino rosso.
– Dai, ma non hai neanche bevuto! Anche io a inizio serata avrei fatto centro.
– Ha appena finito una media. E poi tu a inizio serata avevi ancora da smaltire la ciucca di
capodanno 2000.
Era intervenuto Paolo a difendermi, segno che mi ero guadagnato la sua stima e la possibilità di
intervenire nelle successive discussioni. Gli altri due pagarono le mie birre e le feci segnare: per
me per quella sera poteva bastare così. Il giorno dopo mi sarei alzato presto e non mi andava di bere
ancora. Anche perché non ce l’avrei fatta.
Mi capita spesso di non riuscire a scegliere. Soprattutto quando ho molto tra cui scegliere. Mi capita
al supermercato, nei negozi, in macelleria, in cartoleria, in libreria e in mille altri posti. Passo ore di
fronte agli scaffali o davanti alla persona che mi chiede cosa voglio. Perché io, veramente, non so
cosa voglio. In questo momento si tratta solo di scrivere il titolo di una canzone, ma è comunque
complicato perché dispongo di tutta la musica che esiste. Di nuovo un dramma.
Appoggio la matita al bancone, accanto al quadernino, e mi siedo sullo sgabello. In sottofondo “Alive”
dei Pearl Jam, probabilmente una scelta di Paolo. C’è poca gente e sono le dieci di sera, il momento
giusto per bere una birra, scegliere una canzone, ascoltarla senza aspettare la coda delle altre e
tornarmene a casa a dormire.
– Hai sentito del padre di Carlo?
– No, cos’è successo?
– Ha scoperto di essere malato e si è sparato. Sessantasette anni.
– Come sta Carlo?
– Come vuoi che stia? Male, non è ancora passato di qui, forse passerò a salutarlo, ma non so. Non
riesco a vedere ‘ste cose. Una media?
– Sì, grazie.
Mi viene da piangere. Non so per quale motivo, mando giù le lacrime e resisto. Devo aver fatto una
faccia strana, ma Paolo non se n’è accorto perché nel frattempo mi sono chinato sul quaderno per
scrivere. “Telling Stories”. Lui legge e fa partire subito la canzone, intanto io bevo. Bevo veloce e
intanto penso. Finisco di bere e tiro fuori il portafogli mentre la canzone sta per finire.
– Lascia stare, hai fatto centro.
– Guarda che erano solo due quelle pagate.
– La terza te la offro io.
– Grazie. Buonanotte.
– Buonanotte.
Ho bevuto troppo in fretta e sono un po’ brillo. Non reggo molto l’alcol se non mangio qualcosa o
bevo troppo velocemente. Sono però abbastanza lucido da trovare la strada di casa, ma senza difese
dai pensieri che mi passano per la testa. Penso a Carlo: forse suo padre aveva già finito le cose che
doveva dirgli, lui non aveva sicuramente finito le sue. Dove sono finite le cose che non gli ha mai
detto?
Ora sì che mi viene da piangere e non riesco a mandare giù nulla.
Rivedo la scena in cui i miei mi dicono che si sarebbero separati e mio padre mi guarda negli occhi
per dirmi “da adesso sei tu l’uomo di casa”. Avevo otto anni, una vita fa. Anche in quel momento
piangevo e dopo aver sentito quelle parole, come ora, avevo cercato di mandare giù il nodo, ma non
ce l’avevo fatta. Era stato strano solo l’inizio della separazione, poi mi ci sono abituato. I miei sono
andati comunque d’accordo e non ho avuto traumi.
Mi viene da piangere e piango veramente. Penso a Carlo e alle sue cose non dette. Penso alle mie.
Penso che ho perso troppe occasioni per ringraziare mio padre per le poche parole che ha saputo
dirmi nei momenti in cui non me l’aspettavo e in cui ne avevo più bisogno. Perché ho pensato che
essere l’uomo di casa significasse non piangere e mi sono allenato a mandare giù troppe lacrime;
perché ho pensato che essere l’uomo di casa significasse non chiedere aiuto e non ho più notato chi
c’era accanto a me pronto ad aiutarmi; questa sera ho imparato a piangere. Questa sera scriverò tutto
ciò che non ho mai detto.

You write the words and make believe
There is truth in the space between

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *