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Quanto Basta – Intervista a Matteo Colombo

L’autore

Matteo Colombo, nato a Voghera nel 1976, è giornalista, redattore del settimanale “Il Popolo”, autore e conduttore di “Bauci” su Radio PNR e docente di Scrittura Creativa.

Ha scritto della sua terra in monografie e guide turistiche che sembrano romanzi e un monologo teatrale per la società “FamaFantasma” sui 100 anni dell’Inter. Tra gli altri, nel 2002 ha vinto il concorso “20.02.2002 Un mercoledì da Italiani” organizzato da Beppe Severgnini su Italians e nel 2011 il primo premio al laboratorio di scrittura “Io scrivo” del “Corriere della Sera” con il racconto “Magari disturbiamo” uscito nella collana “Inediti d’autore” (RCS Quotidiani).

“Q.B.” è il suo primo romanzo.

 

Buonasera Matteo, direi, se sei d’accordo, di cominciare dal tuo romanzo, Q.B. (Unicopli, 2019). Il protagonista è uno chef, non di certo uno qualunque.

Sì, il protagonista del mio romanzo si chiama Quinto Botero ed è lo chef del momento. Il più famoso, il più bravo. Quando è ai fornelli procede per sottrazione. Va al cuore della creatività, isola ed esalta gli ingredienti.

E vale anche per la scrittura?

Certo. Anch’io nelle continue riscritture del romanzo sono andato avanti “in levare”, cancellando. Coltivando l’illusione di arrivare a selezionare le parole esatte per “nominare” le cose. Finché questa storia non ha trovato la sua voce. Sono convinto che oggi la scrittura e la letteratura abbiano un senso soltanto se ridanno valore alle parole cioè ai nostri pensieri, sentimenti, emozioni; alla nostra identità. Questa è l’etica che riconosco al mio lavoro. Oggi si parla male e si scrive malissimo: è il segno dei tempi. Significa che si pensa male, si è incapaci di essere gentili, si sovverte la ragione. Vale tutto e, quindi, non vale più nulla.

In questo labor limae che ruolo ha giocato l’editor?

“La porta dei demoni” è una collana editing free. Il curatore, Flavio Santi, ha scelto di non intervenire sui testi con un editing troppo invasivo o troppo autoriale. Forse perché lui sta da sempre dalla parte dell’autore, da quando l’ho conosciuto, da studente di Lettere a Pavia, leggendo il suo Diario di bordo della rosa (Pequod). E poi ho letto molti dei suoi altri libri, da Aspetta primavera, Lucky (Socrates) alla saga del commissario Furlan uscita con Mondadori. In Q.B. non mi ha cambiato nemmeno una virgola. Aggiungo, però, che l’intervento dell’editor non mi scandalizza. Un bravo editor sa fin dove può spingersi; crede, come l’autore, nella stessa storia; non la stravolge, la illumina. Se la riscrive, allora è meglio che l’autore cambi mestiere.

q.b. copertina

La scelta di avviare una collana editing free è legata a un “sospetto”, cioè che «siano gli editor a fare la letteratura anziché gli scrittori», e che il risultato sia un orizzonte omologato, soprattutto nel campo della narrativa.

Il panorama letterario che viene disegnato dai media è fatto solo di classifiche di vendita, di indici di gradimento. La critica militante ha abdicato alle hit parade. Non si scrivono più elzeviri. Le riviste che servono a indicare la strada agli autori (di romanzi) sono lette da pochi; sono diventate pezzi d’arredamento dei salotti di chi si parla addosso. Tutto ciò è un male. Due sono le tendenze attuali: chi nell’opera letteraria cerca qualcosa di tecnico e scientifico e chi va alla ricerca di verità nascoste o filosofiche. Negli anni della mia formazione i miei critici di riferimento erano Segre, Contini, Mengaldo, Garboli, De Robertis, nel senso che ho conosciuto certa letteratura grazie alle loro pagine. Non era solo una critica didattica, era uno svelamento. Benedico le antologie! Nel 2019 il lettore è spaesato, anzi, si è abituato alla moda e non si ribella nemmeno più. Cerca una nota critica negli inserti culturali dei quotidiani e non la trova (le eccezioni ci sono). Per quel che mi riguarda vado a caccia di recensioni, anche negative. Sono affamato di recensioni. Sia da parte dei lettori, sia da parte dei critici. Vorrei che il mio romanzo si strusciasse contro la gamba del lettore, come dice Erri De Luca. Vorrei fare innamorare della mia storia le casalinghe di tutte le Voghera d’Italia. Sarebbe il successo più grande. Un ritorno alla critica potrebbe iniziare dal levare le etichette di genere a ottimi libri che, appartenendo alla categoria del giallo, non vengono nemmeno presi in considerazione. I miei modelli? Ayrton Senna, Lionel Messi, Cesare Togni: da loro ho imparato il gesto del sorpasso. Il movimento impercettibile che lascia chi li guarda meravigliato. Mi sono stati molto utili per arrivare ad affinare il timbro della mia scrittura.

Torniamo a te, e a Quinto Botero. In fondo il romanzo è anche un “giallo”.

Ho scelto il “giallo” perché desideravo confrontarmi con uno schema narrativo molto rigido: partire dalla fine, dalla morte, e recuperare a ritroso la vita (delle vittime). È stato un ottimo banco di prova per migliorare la mia tecnica. Non ho dubbi: il vero talento appartiene a chi sa fare molto bene le cose semplici. E io mi sto allenando.

Non riesco a non pensare a quanto il genere “giallo” sia importante nella serialità televisiva. Ha significato qualcosa per te, intendo l’universo seriale?

Per me le serie televisive sono un formidabile modello per costruire intrecci efficaci. Non parlo del contenuto né del messaggio che lanciano, ma del canovaccio che propongono. Dovrebbero essere presenti nella cassetta degli attrezzi di ogni scrittore. Altro è il linguaggio del cinema e del teatro.

Ti avrei chiesto proprio di cinema e teatro.

Devo confessarti che sono molto più uno spettatore del secondo che del primo. Mi piace passare il mio tempo a teatro. Stare dentro la bellezza di quegli spazi che sono i palchi o i camerini (quando, per il mio lavoro di giornalista, mi capita di intervistare gli attori). Lì assaporo il succo della parola, come se fosse un’albicocca da aprire in due e da mangiare. Nel 2008 ho scritto un testo teatrale che ripercorreva i 100 anni dell’Inter e, insieme, il cambiamento di costumi del nostro Paese. È stata un’esperienza appassionante e faticosa che mi ha cambiato. Per dire: un anno fa ho intervistato Ottavia Piccolo al “Sociale” a Stradella. Eravamo soli nel suo camerino. Lei non parlava, scriveva parlando. Per un po’ non ho più preso in mano il mio romanzo.

Vorrei chiederti anche se hai avuto eventuali rapporti con la Poesia.

Per chi ha scelto la scrittura come lavoro il rapporto con la poesia non è mai eventuale. Io non sono un poeta, ma sono circondato dalla poesia. Mi vado a ficcare nei luoghi in cui posso trovare tracce di poesia. Uno su tutti: il circo. In fondo, gli umani hanno naturalmente rapporti con la poesia solo che non se ne rendono spesso conto, non lo ammettono o si vergognano di confessarlo perché nessuno (nessun professore di Lettere al liceo, per esempio) ha mai spiegato loro che la poesia, prima di ogni altro beneficio, rilassa. Rilassa le idee, le emozioni, i sentimenti, i muscoli. Una persona dalle idee rilassate può cambiare il mondo. Può morire nelle sue parole «prima che le divorino le rime, i versi, il senso, lasciandomi più povera di adesso». L’ha scritto Silvia Bre, una grande poetessa.

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