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Per un figlio, di Suranga D. Katugampala.

Nessun applauso a film concluso. Nessun commento sottovoce, nessuna fuoriuscita ordinata. Solo un accordo, «l’eco di un silenzio», in sala. L’emergenza di un discorso «che si fa forma, che si fa linguaggio».

Prima della proiezione, Suranga D. Katugampala, ospite del quarto appuntamento della rassegna “Il mio film” (al Cineteatro Volta), era salito sul palco esortato da un timido applauso e dalla mano di Paolo Lipari. Aveva introdotto il film parlando di emergenza, del budget ridotto, della difficoltà di trovare produttori, di come sia stata, di fatto, una produzione fra amici, intima quasi (ne parla anche Kaushalya Fernando in una piccola intervista). Si concentra, sospinto dal conduttore, sul suo tentativo particolarissimo di spingere alla comunicazione i suoi due mondi, lo Sri Lanka («vado in Sri Lanka per pensare») e l’Italia («torno in Italia per raccontare»), per di più in un’opera prima. Lo staff e il cast attoriale sono in effetti una mescolanza fertilissima: la menzionata Kaushalya Fernando, una star nel suo paese, nei panni di Sunita, la protagonista, non conosceva neanche una parola di italiano (e quasi il figlio, Julian Wenesekara, diegeticamente lo rileva: «non sai parlare neanche l’Italiano!» urla, con disprezzo, in una scena); e come dimenticare Channa Deshapriya, direttore della fotografia. Eccetera eccetera. E che stupore in sala quando Suranga ci comunica il palmares dell’anziana protagonista, Nella Pozzerle, trasmutata nella sua ecolalia «Sunita, non lasciarmi sola», «Sunita, mi annoio a stare sempre nel letto», Sunita Sunita Sunita. Dicevo un palmares che conta, per lo meno, una lunga carriera da teatrante (in dialetto veneto) nel suo paese, Velo veronese. Soltanto uno scorcio della intensissima e puntuale realtà produttiva del film, ma vado oltre.

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Riporto con pigrizia, per amor di chiarezza, la sinossi tratta dal sito: [Provincia di una città del nord Italia]. Sunita, una donna srilankese di mezz’età, divide le sue giornate tra il lavoro di badante e un figlio adolescente. Fra loro regna un silenzio pieno di tensioni. È una relazione segnata da molti conflitti. Essendo cresciuto in Italia, il figlio fa esperienza di un’ibridazione culturale difficile da capire per la madre, impegnata a lottare per vivere in un Paese al quale non vuole appartenere.

Subito, ho parlato di emergenza. Aggiungo urgenza: sono i due vettori fondamentali del linguaggio di Suranga. Entrambi – in altri tradotti come effusione, come caos, come potenza – qui sono sincope, perché la parola è svenuta. Mi spiego: Per un figlio (2017), di Suranga D. Katugampala è un film reticente, che significa sospensione del discorso oppure funzione conativa della parola che rimane tale, e ancora parola che «parla in nome del silenzio cui aspira» (Raimondi cita Jabès in un suo intervento). Aspirazione al silenzio perché la contemporaneità è horror vacui (paura del vuoto), ovvero bisogno viscerale di riempire il silenzio (non un silenzio puro, ma in assenza di parole) con discorsi non significativi, quasi puro suono.

Suranga parla di una “provocazione”: la sua sceneggiatura, parafraso, conta pochissime pagine, perché pochi sono i dialoghi, pochissimi. Ma questa rarefazione è come se mettesse un discorso solo alla ribalta, un discorso difficilmente riducibile a categoria: non è problema dell’immigrazione, dell’integrazione; non è solo povertà, solo rapporto genitore-figlio; ma è tutto questo insieme, e nella singolarità del documento raccontato (dico documento rifacendomi alla “tecnica” documentaria adottata) – il rapporto tra madre emigrata e figlio in processo d’integrazione, con a condimento un lavoro necessario ma inconcepibile, il continuo persistere nella povertà eccetera – nella singolarità della vicenda troviamo finalmente il discorso, la criticità, la scintilla.

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Nel film troviamo il silenzio dove è solito esserci rumore. Per esempio nel cibo, funzione quasi rituale della cura familiare. Ma in Per un figlio i pasti sono vincolo unico di nutrizione, la casa è un non-luogo, di passaggio, il gioco è anacronistico (rompere le bottiglie durante l’epoca dei cellulari…). Ma rimango un secondo di più sullo spazio. Il film è girato prevalentemente al chiuso. In queste case molto diverse, quella della anziana per la quale Sunita fa la badante e quella dove vive, insufficiente, la donna col figlio (e qualche appendice, l’ascensore, le rare incursioni nella vita sociale di paese). Nel bosco, luogo intermedio, si consuma l’unico vero episodio di oltranza trasgressiva contro la madre, episodio che va in un certo qual modo in direzione opposta al puro atto sessuale carnale: anzi, chi ha visto il film potrebbe leggere la scena ripensando alla medesima, ma ribaltata, inquadratura che lega l’anziana regredita a bambino e la badante, con significativo ribaltamento anche del nudo, ove la donna anziana è coperta dall’accappatoio (ma impressa è la scena di pochissimo prima del bagno), la prostituta è vestita, pur volendo scoprirsi. Il parallelismo è, a parer mio, la chiave.

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Il film insomma si addensa attorno a questo rapporto madre-figlio, indagando il silenzio che vige tra i due come una teologia. La donna tenta di sopravvivere per il figlio, lavora ininterrottamente per la sua formazione e il suo benessere. Il figlio tenta la via dell’integrazione voltando in pratica le spalle alla propria cultura. L’incomunicabilità (e a paradigma è chiamato in causa, dallo stesso autore, Antonioni) è totale anche quando il figlio tenta, con un delicato stratagemma di singhiozzo, di comunicare il suo pentimento per il torto fatto, e il perdono: la madre non si sveglia, non può, lo ha fatto durante tutto il film al rientro del figlio ma quella volta no, non è stato possibile, è l’intervento registico.

Ma il film è anche il racconto di una situazione tutta italiana: l’abbandono degli anziani da parte dei figli, in pace con sé stessi elargendo poco denaro a una badante full time. Non è argomento da poco perché è in quel momento che la solitudine è insopportabile. Suranga dopo la proiezione sottolinea come la cinematografia italiana sia per lo più disinteressata al problema, preferendo un approccio pre-concettuale sicuramente comico ma superficiale. E nella scena ricordata precedentemente con la vecchia che si posa sulle ginocchia della donna c’è anche la consapevolezza di un destino comune, il destino dell’abbandono che è umano ma qui si fa anche individuale.

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Insomma Per un figlio è un film che parla di assenza: di parole, di legami, di spazi. Assenza anche di un discorso sul film, un discorso sociale. Ma è anche, come detto in esordio, assenza (silenzio…) che si fa forma, linguaggio cinematografico: la ripresa è poco aggressiva (come proprietà del modo documentario), caratterizzata da frequenti, anche se brevi, piani sequenza che alludono forse a una claustrofobia che non può essere infranta; alludono, paradossalmente (e Suranga ha ringraziato uno spettatore per l’accusa di essere “paradossale”) a un’immobilità, come nelle riprese “in movimento”, con la donna sul motorino seguita alla medesima velocità e dando, perciò, più l’impressione di un’oscillazione impercettibile. In contrasto, alcune ricorrenti inquadrature fisse. Del letto della anziana, del suo bagno, del tavolo da pranzo. E ancora a casa col figlio del piccolo tavolo reclinabile e del corridoio (inquadratura inaugurata da un problema elettrico alla lampadina). Sono insistenze che traducono una terribile routine.

C’è anche, è evidente, un certo gusto per le significazioni interne alle immagini. Come quando Sunita reclina il capo, aspettando, proprio sotto il quadro della madonna odigitria: ma la donna non ha il figlio in braccio, è lontano.

Suranga sta progettando il prossimo film, l’ha annunciato in sala. Nel mentre, il cortometraggio La consegna (2017, 16′) posso dire confermi l’altissimo tasso d’autorialità: nei silenzi, nei movimenti che sono solo di attesa e nient’altro, un’attesa che si conferma finale essa stessa.

Per un figlio è un film pieno, la densità dell’aria si respira qui in periferia proprio come nelle grandi città. Un film capace di spingere lo spettatore al silenzio, spesso angoscioso, pure riflessivo.

[Tutte le immagini sono prese dal sito del Film].

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