Cultura

L’Italia è uno spettacolo

 

di Giovanni Cervi Ciboldi

 

Tristi o divertenti, belle o brutte, il cinema racconta storie. Storie di vita, di morte, reali o fantastiche. Quello italiano ne ha sempre raccontata una. La nostra. In poco più di un secolo, il cinema ha raccontato ogni momento della nazione, raccogliendolo e fissandolo per sempre sulla pellicola.
Dai primi film muti alle campagne di Olmi, dalle ossessioni di Antonioni alla Sicilia di Tornatore, il cinema ha mostrato l’Italia, l’ha spiegata, l’ha fatta rivivere e talvolta l’ha uccisa. E’ la nostra storia a vivere in quei chilometri di nastro: quelle immagini siamo noi.
Pensare che la prima proiezione pubblica italiana, “La presa di Roma” (1905, forse pagato dalla massoneria), riguardò proprio l’unità d’italia, elevando la conquista dell’identità nazionale a mito, sfruttando quella matrice persuasiva insita sia nella vicenda che nel neonato mezzo di spettacolo.
Oggi la pubblicità e la distribuzione, unite ai tagli di fondi governativi, hanno inabissato quello che un tempo era uno degli orgogli dello stivale. Ma vi sono stati giorni migliori.
Appare infatti stimolante (e forse patriottica), l’idea che “Cabiria” (1914, autografato da tre eccellenze italiane: D’Annunzio, Pastrone e Pizzetti), abbia permesso la nascita di quello che è ora il cinema colossale americano infulenzandone il capostipite, “Birth of a Nation”, diretto da D. W. Griffith.
Certo è che, già nel 1914, un anno prima di quel conflitto che sarà oggetto de “La Grande Guerra” (il capolavoro di Monicelli con Alberto Sordi, 1959), il film rivoluzionò la neonata arte a meno di dieci anni dalla sua nascita. La sua storia celebra il passato, la sua qualità il presente: ma tutto celebra l’Italia.
E vi furono anche anni in cui il cinema italiano era addirittura sul tetto del mondo, anni in cui il neorealismo raccontava quel caos in cui ogni uomo è fratello ma anche incredibilmente solo (“Paisà” e la trilogia della guerra, Rossellini, 1946), rendendolo anche nelle stesse riprese: e non è meno vivo, ormai a conflitto terminato, in “Ladri di biciclette” (De Sica, 1948), in cui fa da scenario a vicende di vite rubate, delle quali la bicicletta è il simbolo.
Tutto racconta la vera nazione, che trova la sua immagine più pura negli attori presi dalla strada e lanciati sullo schermo a interpretare nient’altro che se stessi in un paese piegato dalla storia.
Altrettanto rosei gli anni delle sette notti di fascino e squallore de “La dolce vita” (Fellini, 1960), che lasciano giudicare lo spettatore su che cosa sia la nuova Italia del boom economico: gli stessi in cui “Rocco e i suoi fratelli” (Visconti, 1960) mostrava una vere unità ancora da raggiungere, in cui documentari localistici di De Martino, De Seta e Mingozzi ritraevano le diverse quanto particolari tradizioni e all’interno della penisola.
Oggi ancora una piccola parte di cinema ci mostra come e che cosa siamo: “Italians” (Veronesi, 2009, con Carlo Verdone) e “Io non ho paura” (bimbi e mafia: Salvatores, 2003) sono sempre valevoli.
Eppure qualcosa oggi ci manca. Manca quel cinema popolare, cresciuto con l’Italia, andato a passo con i mutamenti della società. Manca un po’ di verità, quegli attori improvvisati, a cui è oggi impossibile tornare.
Ma non manca una storia da raccontare. É sempre là, e ci aspetta: una bobina che scorre nel tempo, che proietta sul telone il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro.

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