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“Miseria e Nobiltà”, di Michele Sinisi: una farsa contemporanea

Dal Miseria e Nobiltà di Eduardo Scarpetta, testo e patrimonio partenopeo giunto poi al grande pubblico con il girato televisivo del 1954, Michele Sinisi trae uno spettacolo dotato di grandissimo ritmo e di interessanti trovate visive. Il regista sembra volerci raccontare la miseria, che aleggia tanto nella spoglia casa di Pasquale sotto forma di povertà quanto nell’abitazione del parvenu Don Gaetano col suo arrivismo, con un occhio benevolo ed empatico nei confronti di questa umanità piena sì di difetti ma anche di grande energia e potenza comica. Una potenza che è soprattutto nei corpi, sempre più scatenati e creativi (fino ad arrivare verso il finale alla scena della festa), e nella lingua: da una parte i dialetti ci raccontano di tutta un’Italia popolare, dall’altra i tormentoni personali e le espressioni ricorrenti ci aiutano a conoscere i personaggi.

A farla da padrona nella poverissima casa di Pasquale e Don Felice  è la fame: una fame lamentata di continuo e saziata solo negli improbabili banchetti vagheggiati, tanto che anche la famosissima scena degli spaghetti è immersa in un atmosfera da sogno in cui il cibo piove dal cielo. Così ha inizio il gioco delle parti, il travestimento che porterà la strampalata famiglia ad una festa che interessa solamente perché  permetterà di mangiare dopo giorni di magra.

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Secondo una logica differente, anche Sinisi è un doppio personaggio: non veste solo i panni di un Peppeniello adulto e scapestrato, ma incarna anche la parte, potremmo dire esplicita, di un regista che aleggia sulla scena, osserva, orienta la luce di una botola che dal proscenio guida anche la nostra attenzione. In questo modo si viene a creare un interessante piano meta-teatrale che ci rende consapevoli del meccanismo performativo e allo stesso tempo permette un omaggio alla tradizione di grandi interpreti come Totò e Troisi grazie ai siparietti estemporanei in cui Pasquale e Don Felice si spogliano dei loro personaggi per tornare attori e accennare le  “scene della lettera” dei vari film, scontentando ogni volta il regista. Come solo in teatro, bastano un telo bianco, un lampadario e dell’argenteria per passare nella casa del cuoco arricchito in cui si svolge la seconda parte della farsa; l’ambientazione muta, ma la grettezza umana rimane la stessa, tanto nel servilismo di Don Gaetano nei confronti della nobiltà di sangue e di titolo, quanto nella grettezza del marchese Favetti che pur di sposare la bella Gemma sarebbe pronto a ostacolare l’amore fra lei e il proprio figlio.
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Seppur presente, la critica sociale è però assorbita da un tono di commedia e da un lieto fine che si rivela essere un ulteriore omaggio al girato di Mario Mattoli: la botola del proscenio si trasforma in  una televisione attorno alla quale tutti i personaggi si riuniscono per seguire le ultime battute della loro stessa commedia. Infine, con un ultimo gesto, il regista punta enigmaticamente quello stessa luce verso, o contro, lo spettatore prima di far sprofondare palco e platea nel buio.

Sinisi sembra dunque profondamente interessato ad un teatro manifesto, che esplicita le sue dinamiche, le sue fonti e ispirazioni, come pure ad una messa in scena che possa coinvolgere e chiamare in causa il pubblico: se il suo Amleto sembrava invitarci nella sua camera e nel suo gioco privato, qui, con toni molto diversi, la compagnia sembra  permettere allo spettatore di partecipare ad una prova generale che a tratti sembra perfino far apparire, in controluce, il lavoro laboratoriale da cui la messa in scena si sprigiona con tutta la sua forza.

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