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Let the music play: “Baby driver”

Ci sono pochi registi in circolazione capaci di assorbire, digerire, e poi riproporre in modo originale la cultura pop. Tra questi, un posto d’onore spetta ad Edgar Wright, che inserisce nel mosaico della sua filmografia un quinto, brillantissimo, tassello, ossia Baby Driver (2017). Il regista quarantottenne si è fatto conoscere al mondo grazie alla superba “trilogia del cornetto” (composta da Shaun of the Dead, 2004, Hot Fuzz, 2007, The World’s End, 2013), un prodotto capace di rimescolare diversi generi, coniugando il lato comico-demenziale con un’azione incalzante e pirotecnica, sempre a partire da alcuni archetipi narrativi collaudati. In questo senso, in Baby Driver l’ago della bilancia pende a favore proprio della componente action, e lo si capisce fin dalla sequenza di apertura, dove ha luogo il primo dei molti, serratissimi inseguimenti.

Della storia conviene dire poco, in virtù del suo carattere semplice (il soggetto si ispira a un videoclip girato dallo stesso Wright), archetipico e quasi fiabesco: il “buono” protagonista (un impassibile Ansel Elgort) è un giovane, abilissimo pilota che permette alle bande criminali di fuggire dopo i loro colpi, e che solo dopo aver conosciuto l’amore cercherà una via d’uscita da quel mondo compromettente.baby-driverLa peculiarità di questo anti-eroe, che come ogni anti-eroe che si rispetti parla poco e per frasi a effetto, è che non può vivere senza la musica. A causa di un incidente, soffre di un disturbo auricolare che lo costringe ad essere sempre munito di cuffiette ed iPod, per ascoltare, in modo quasi compulsivo, canzoni di ogni genere. È grazie a questo meraviglioso espediente narrativo che Wright può giocare con tutto l’impianto sonoro del suo film, mescolando colonna sonora interna ed esterna (emblematico il virtuoso piano-sequenza dei titoli di testa), alternando le impressioni sonore soggettive e oggettive, evidenziando o attutendo suoni, rumori, voci a proprio piacimento. Di conseguenza, sembra davvero che siano le immagini a seguire le pulsazioni sonore e non viceversa. È qui che entra il gioco l’abilità dei montatori: sono loro che creano armonie e dissonanze mediante i vari stacchi di montaggio, quasi sempre in sincronia con la sezione ritmica della canzone che viene messa in sottofondo, aumentando così la spettacolarità dei frammenti action. La lezione del videoclip, una forma d’espressione immediata e popolare, viene in questo modo ripensata ed elevata ad un rango artistico più alto. La varietà di generi musicali che compare nel film è, quindi, funzionale alle diverse tonalità espressive che ogni singola scena assume, e soprattutto all’utilizzo trasversale della cultura pop di cui si parlava all’inizio: si spazia dal punk dei Damned al glam-rock dei T. Rex e dei Queen, dal reggae al rap, dal funk al soul alle ballate acustiche. Non sorprendono quindi le tre nomination agli Oscar, tutte di carattere specificamente tecnico: per il miglior montaggio, il miglior sonoro e il miglior montaggio sonoro. In questi tre campi, Baby Driver dovrà vedersela con il mastodontico impianto di Dunkirk (Christopher Nolan, 2017), un altro film “musicale” per altri versi.

In ogni caso, entrambe queste opere ci ricordano quanto complessa sia l’arte cinematografica, proprio per gli altissimi livelli di sincretismo che riesce a raggiungere fra le sue diverse componenti: un film è una composizione polifonica che solo i grandi direttori d’orchestra possono dirigere e solo i grandi suonatori sanno eseguire. Baby Driver è l’ennesima dimostrazione che possiamo annoverare in queste categorie Edgar Wright e i suoi tecnici.

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