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Harold e Maude: una lezione sulla vita

Il 20 dicembre del 1971 usciva nelle sale cinematografiche americane Harold e Maude, opera del compianto regista Hal Ashby. Ci si può interrogare se, alla luce dei trent’anni passati, valga la pena risvegliare l’attenzione su di una pellicola che ha visto il suo buon tempo. La risposta non può che essere affermativa, vista la molteplicità di angolature da cui il film esige essere analizzato per essere compreso.

HHarold (Bud Cort) é un giovane diciottenne, figlio della ricca borghesia, cui il destino sembra non aver fatto mancare nulla: dimora di lusso, belle macchine, parenti facoltosi, tutto quello che si possa desiderare. Maude (Ruth Gordon) invece è un’eccentrica anziana dall’avventuroso passato che ha vissuto a lungo in Europa. Il loro incontro cambierà per sempre la vita del primo.

Harold, stanco di una vita della quale non comprende la logica e alla quale non sa dare una direzione, manifesta un curioso rapporto con l’idea della morte, per cui spesso inscena suicidi al fine di terrorizzare e attirare l’attenzione della madre (l’attrice Vivian Pickles), donna chiusa in una logica dell’apparenza, per cui la forma conta più della sostanza. Significativa la scena iniziale in cui è subito rappresentata una di queste performance da parte del giovane, che indubbiamente disorientano l’ancora ignaro spettatore, posto in una mise en abyme precoce.

Da una personalità così bizzarra possiamo aspettarci anche che ami recarsi ad i funerali di gente sconosciuta ed in una di queste occasioni conosce Maude. Maude ama la vita, la insegue in tutte le sue forme divenendo una proteiforme manifestazione della vita stessa. Bizzarra più del suo giovane amico, si dedica ad attività non meno stravaganti attraverso il suo atteggiamento anticonformista, dando vita a scene di una comicità cangiante, ora grottesca ora surreale che strega lo spettatore invitando ad una risata riflessiva e mai frivola. Adora l’arte e di opere d’arte è piena la sua casa, nella quale non manca di invitare Harold. Maude guida Harold attraverso le sue creazioni che devono di essere toccate per essere apprezzate, poiché risultano dall’assemblaggio di materiali diversi, oppure vogliono essere annusate così da sprigionare ammaglianti profumi. In un esperienza che sa (almeno per lo spettatore italiano) di mariniana memoria (Adone nel giardino dei sensi di Venere), il ragazzo entra in contatto con la realtà in una comunione con essa che è libera da qualsiasi vicolo sociale cui, invece, sembra essere troppo legata la madre. Avviluppata nel suo buonismo da “ben pensante”, ella non riesce ad andare oltre il ruolo che la società americana degli anni ’60, piatta e bigotta, le ha dato e che lei ha armonicamente interiorizzato.

HTorniamo a Maude, forza esplosiva che dall’alto dei sui settantanove anni lotta contro qualunque potere. Viene spontaneo chiedersi da dove venga tanta energia, ma del suo passato non si fa mai parola. Eppure, allo spettatore che sa ben vedere, una scena dà una visione di scorcio sulla sua storia che carica ancora di più il senso del personaggio all’interno della trama. Sullo sfondo di un romantico tramonto, mentre lei e Harold passano del tempo insieme, si vedono dei numeri tatuati sul suo braccio, segno di una passata esperienza nei lager. Siamo di fronte ad un personaggio che non è solo un simbolo della vita, ma un soggetto che può esserlo perché ha visto il volto più disumano della vita medesima, l’abbrutimento bestiale dei viventi. Indubbiamente questa agnizione carica la scena e la colloca in una sorta di muto dialogo tra lo spettatore e la vicenda, a maggior ragione nel momento in cui vediamo che Harold non sembra ben capire cosa questa incisione sul braccio voglia indicare.

La profonda relazione che si instaura tra i due muta verso un rapporto d’amore. La società grida allo scandalo e lo fa attraverso tre soggetti: un prete, guida spirituale della famiglia di Harold, lo psicologo presso cui il ragazzo era in cura e lo zio, ex colonnello. Sembra che il corpo sociale, nelle sue vesti di forza religiosa, scientifica e giuridico-militare, non sappia darsi una spiegazione di fronte all’unica relazione autentica che per la sua forza perturbante è percepita di primo acchito come estraniante anche dallo spettatore. Il finale lascerà di stucco e può considerarsi una chiosa perfetta.

Una simile opera non può lasciarsi scappare un cast d’eccezione di cui la punta di diamante è senza dubbio Ruth Gordon (Maud) che con i suoi sguardi riesce a proporre un personaggio plastico e realistico in tutta la sua polimorfica essenza. Il film costituì anche la seconda apparizione sul grande schermo di Bud Cort, nella parte di Harold, uno dei suoi ruoli meglio riusciti alla luce della sua lunga carriera. La magia della narrazione è alimentata dalla fotografia fiabesca di John Alonzo, dalla musica velata di malinconico umorismo di Cat Stevens e dal vivace alternarsi di scene macabre, comiche e drammatiche che fanno del regista il forgiatore di un’opera che sfugge schematismi di ogni sorta.

Regista, Hal Ashby, che riversa in questa pellicola, la seconda, dopo l’esordio con The Landlord, di sua produzione, gli anni della sua formazione quanto mai originale. Frutto di una gavetta iniziata lontano dei banchi di scuola a partire dai livelli più bassi dello studio system, essa gli consente di assorbire una competenza tecnica che troviamo modulata con sapienza nei suoi lavori. Non dimentichiamo il rapporto con la New Hollywood, il movimento cinematografico che esordì in concomitanza con i primi lavori del regista i cui membri (tra loro Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Woody Allen) erano stati educati al cinema, avevano studiato per far parte di questo mondo, mentre la passione tra Ashby per la settima arte venne costituendosi in maniera autonoma tramite assidua frequentazione di sale cinematografiche. L’aurea di stravaganza, anticonformismo ed originalità che circonda il percorso formativo del regista non poté non riversarsi sulla scelta di soggetti altrettanto curiosi e bizzarri e (forse) per questo più densi di significato.

I numeri per un cult erano tutti presenti quando la pellicola uscì nelle sale e così è stato: oggi non si può fare a meno di vedere questo film, opera che segnò una volontà di celebrare l’esistenza e nella quale qualsiasi epoca può rivedersi, perché la vita richiede sempre di essere indagata da ciascuno di noi nella ricerca di una direzione, magari con una Maude che ci mostri il cammino e ci dia una spinta.

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Tommaso Romano

Redattore per «Inchiostro». Studente di «Antichità Classiche e Orientali» presso l’Università di Pavia, è appassionato di troppa roba. Cento ne pensa, cento ne fa, cento ne scrive (o vorrebbe).

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