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L’amore a Hong Kong: “In the mood for love”

Alla fine del ventesimo secolo, quando all’interno della bolla hongkongese – e più distesamente cinese – si respirava un cinema d’azione e spumeggiante, violento, veloce come la diffusione parallela dei video-clip musicali, i film di Wong Kar-wai intervenivano raccontando qualcosa di distante, di isolato, come la celebrazione delle inquietudini e dell’amore malinconico, della solitudine. E, senza alcun dubbio, In the mood for love (2000) rappresenta il risultato più efficace delle volontà del regista cinese.

Il film muove dall’incontro fra il signor Chow (Tony Leung), redattore per un giornale locale, e la signora Chan (Maggie Cheung), impiegata in un’agenzia pubblicitaria, a seguito del trasferimento di entrambi in due appartamenti contigui, nella Hong Kong claustrofobica dei primi anni sessanta. Quando vengono a conoscenza del tradimento da parte dei rispettivi coniugi, subendo, quindi, il medesimo destino avverso, i due protagonisti si avvicinano lentamente, nel tentativo di ricostruire i passaggi e giustificare le ragioni di quanto accaduto. Il tentativo risulta fallimentare, ma conduce alla rivelazione di un forse reciproco sentimento amoroso, che rimane inespresso lungo tutta la pellicola.

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La distanza dal cinema di Bruce Lee non potrebbe essere più evidente, giacché il nostro cineasta cinese racconta di tempi inesorabilmente lenti, che si trascinano nella gestualità meccanica, sùbito prevedibile, dei suoi personaggi. I protagonisti di In the mood for love sposano questa temporalità meglio di quelli del precedente Days of being wild (1991), e del successivo 2046 (2004). Le azioni abitudinarie del signor Chow e della Signora Chan subiscono la lentezza delle scelte registiche di Kar-wai a tal punto da stagnarsi in sequenze girate a rallentatore: imprigionate in corpi giovani ed esili, le loro anime tristi scendono lungo le scale dei vicoli bui di Hong Kong, soffocati dalle torrenziali piogge estive e dai gas dei venditori ambulanti di ravioli a vapore, con un’indolenza e una calma che sono rese ancor più esplicite dalle note del bellissimo Yumeji’s Theme, valzer di Shigeru Umebayashi, che con regolarità torna a rallentare il moto dei due giovani corpi. Il signor Chow ha spesso il fiato corto, fuma una sigaretta riflettendo a capo chino sull’amore tradito. La signora Chan lavora metodicamente a macchina nell’ufficio del suo capo, anch’egli impegnato a portare avanti un difficoltoso rapporto fedifrago. Vige lungo il film una temporalità talmente stagnante da essere, in sostanza, a-narrativa: il dolore dei due protagonisti è comune, come reciproco è il sentimento d’amore, eppure il rapporto non decolla mai, non si concretizza come quello dei rispettivi coniugi. Il personaggio femminile, col viso triste e limpido di Maggie Cheung, sente troppo il peso di un’austerità sintomatica della Hong Kong degli anni sessanta, come rivelato dagli interventi della morigerata proprietaria dell’intimo appartamento, asfissiante nel ricordarle il suo ruolo muliebre e il rispetto della morale e delle convenzioni.

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In presenza di una narrativa così esile, serve tutta la capacità direttiva di Wong Kar-wai per far parlare il film attraverso il mezzo cinematografico e le immagini che esso veicola. Già in Days of being wild (1991), l’uso di un morbido chiaroscuro e della particolare messa a fuoco sui volti dei personaggi era stato sufficiente a far risaltare il fascino della loro tristezza, ma il passo avanti compiuto con In the mood for love c’è ed è ben più netto. La macchina da presa si muove con un pudore che è impossibile non notare: ci mostra i due protagonisti, il signor Chow e la signora Chan, senza invadere i loro spazi, evitando di respirare loro addosso. Mediante un uso consapevolissimo di lunghe inquadrature e della profondità di campo, li guardiamo oltre l’oblò della reception di un albergo, attraverso le porte degli uffici, o velatamente dietro tendaggi sottili, o nel riflesso di uno specchio. Dei due coniugi fedifraghi, invece, non c’è traccia; sembra che Kar-wai voglia dire allo spettatore che essi non sono meritevoli di occupare la scena, dunque lascia loro soltanto lo spazio minimo delle bugie che pronunciano, ma sempre in fuoricampo.

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Da un punto di vista più squisitamente tecnico, l’impatto visivo della pellicola è anche, e soprattutto, il risultato dell’intervento di Chris Doyle, direttore della fotografia: la sua Hong Kong notturna favorisce l’esplosione delle luci al neon, dei colori saturi e contrastati, come quelli dei cheongsam indossati dalla signora Chan, rigidamente affibbiati al suo corpo e con temi floreali sempre diversi, o quelli delle pareti purpuree dei motel.

Quest’uso sapiente del mezzo cinematografico racconta scrupolosamente il mondo di In the mood for love, le incertezze dei suoi protagonisti, la decisione di non assecondare mai un amore voluttuoso, che resterà in definitiva inespresso. Ed è così, alla fine, che il personaggio del signor Chow sussurrerà il suo segreto in una breccia nella parete di un antico tempio cambogiano, congedandosi da esso e consegnandolo alla memoria eterna del tempo.

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