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Blow-up: la sottile linea tra realtà e illusione

E’ possibile arrivare alla vera natura della Realtà? Possono l’arte e il cinema riuscire a catturarla adeguatamente? Cosa fare una volta constatati i limiti della nostra percezione sensibile e della rappresentazione artistica?

Quando a metà anni ’60 inizia a lavorare a Blow-up (letteralmente: ingrandimento), Michelangelo Antonioni è reduce da Il Deserto Rosso e dai precedenti tre film della tetralogia dell’incomunicabilità (L’avventura, La Notte, L’eclisse), nei quali venivano esplorate le difficoltà nei rapporti tra persona e persona, filtrate attraverso una visione inesorabilmente pessimistica dell’amore, della sua fragilità, finzione e incomprensibilità.
L’incomunicabilità dei sentimenti era raccontata sullo sfondo di paesaggi e ambientazioni – tutte italiane – molto caratteristiche e dall’alto valore simbolico che assumevano le fattezze di un vero e proprio personaggio nella vicenda, rispecchiando la psiche e le vacue relazioni dei soggetti ritratti. Anche i mutamenti socio-economici che il nostro paese stava vivendo in quell’epoca erano mostrati attraverso un punto di vista intimo e personale, ponendo quindi questi film lontano dai canoni del Neorealismo.

tetralogia dell'incomunicabilità

Con Blow-up il distacco rispetto al passato è netto. Ci ritroviamo nella dinamica, effervescente e musicalmente pulsante Londra degli anni ’60, la Londra dei Beatles, in cui fioriscono la società dei consumi, la moda e l’action painting. Lasciamo l’indimenticata e splendida Monica Vitti, musa del regista nei film della tetralogia, e ora al centro dell’attenzione è posto il rapporto tra il protagonista e la realtà che lo circonda.
I cambiamenti li percepiamo anche a livello tecnico: la macchina da presa lascia le visuali bidimensionali e alienanti e i lunghi piani sequenza statici per dar spazio a inquadrature più profonde e a un montaggio più sostenuto rispetto al passato, quasi a voler rispecchiare la maggiore vitalità del contesto in cui si svolge l’azione.
I lunghi e cupi silenzi e gli spazi geometrici svuotati, caratteristici della tetralogia, lasciano il passo alla ricomparsa della musica – sia diegetica che extradiegetica – e ai luoghi urbani affollati: ristoranti, manifestazioni in strada e sale da concerto.
Permangono invece diversi elementi tipici dell’opera antonioniana: la sospensione della trama, le difficoltà dei personaggi nel relazionarsi in maniera serena con il mondo, la predominanza semantica dell’immagine sulla parola. Per il regista ferrarese l’immagine, la sua estetica sono quasi autosufficienti all’esposizione della vicenda, la quale spesso avviene attraverso i rapporti che la camera acquisisce con i personaggi e gli spazi in cui si muovono e relazionano.

Blow-up è una ricerca, un’indagine senza epilogo il cui finale non è decifrabile in maniera netta. La comparsa dei medesimi mimi – incarnazione dell’illusorietà della realtà – all’inizio e alla fine dell’opera comunica una circolarità, come a voler rimarcare l’impossibilità di giungere a una conclusione definitiva in questa investigazione.
Gli eventi narrati non seguono sempre i rapporti causa-effetto, diverse circostanze impediscono alla vicenda di proseguire linearmente nella sua inchiesta, ci vengono mostrate sequenze stranianti rispetto ad essa. Tramite queste Antonioni rende anche formale la frammentarietà e l’imperscrutabilità della realtà che sembra voler comunicare e delinea e definisce alcuni tratti del protagonista e della realtà che lo circonda, la vicenda dell’elica o quella delle due aspiranti modelle sono un esempio calzante in tal senso.

frammenti 2.0

L’episodio centrale del film, in cui Thomas – il protagonista – si chiude nella camera oscura e scopre ciò che i suoi occhi non erano stati in grado di cogliere racchiude un senso importante: dapprima ci rendiamo conto che lo strumento meccanico (la macchina fotografica) e il mezzo artistico (la fotografia) arrivano dove l’esperienza sensibile umana non è giunta. Successivamente si svela davanti a noi l’incapacità della fotografia, ovvero della figurazione del reale, di arrivare a una verità: ad ogni ingrandimento (blow-up) la realtà catturata sembra modificarsi, nuovi elementi vengono alla luce, nuovi scenari si aprono, tra le fronde degli alberi compaiono nuove forme e dettagli che prima apparivano evidenti ora sono persi tra le sgranature della fotografia.

Nel finale, Thomas ormai privo di certezze riguardo all’esperienza vissuta, decide di lasciarsi andare ed abbracciare l’illusione della partita a tennis tra i mimi e di raccogliere la pallina immaginaria. È significativo sottolineare come, ad un certo punto, anche la macchina da presa decide di seguire i movimenti della pallina, come a voler sottolineare l’identità tra la decisione del protagonista e le convinzioni del regista, al contrario di quanto avveniva in Il Deserto Rosso dove l’autore non si faceva partecipe dell’alienazione della protagonista Giuliana preferendo ritrarla da una prospettiva esterna.

tennis

Antonioni sembra dunque suggerirci l’impossibilità di arrivare a una rappresentazione univoca della realtà, sia i nostri sensi che il mezzo meccanico e artistico falliscono e sono in grado di restituirci solo frammenti scomposti di essa. L’unico modo per continuare la ricerca sembra quello di perseverare cercando una risposta, un rifugio nell’illusione operata dalla nostra immaginazione.

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