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Blade Runner e il tempo

Trovo arduo dover contestualizzare l’opera che è Blade Runner (Ridley Scott, 1982) a chi si appresta a vedere il suo “sequel” firmato da Villeneuve. Non è tanto il fatto che esistono più versioni di quel film (sette), dalla Director’s Cut del 1987 alla Final Cut del 2007; non è neppure l’ironia di essere nato dopo il film stesso, né di essere forse uno dei pochi a preferire la versione del 2007 in cui Ridley Scott ha potuto liberamente editare, montare, restaurare, togliere, mettere tutto ciò che voleva. Non è nemmeno la trama del film, che a dispetto di quanto pensavano i produttori può essere capita anche da dei ragazzini: inutile fu chiedere a Philip K. Dick (che aveva scritto il famosissimo Ma i robot sognano pecore elettriche? da cui è liberamente tratto Blade Runner) di elaborare una versione letteraria del film a ridosso dell’uscita. Non tanto perché il rifiuto era prevedibile, quanto perché ciò che si vede in Blade Runner è più semplice della sua messa in scena (osannata e criticata al contempo) e dei suoi silenzi.

Lo si capisce fin dalle prime immagini, che sono per me iconiche. Il bellissimo (non c’è altra definizione) close-up dell’iride in cui si riflette l’enormità urbana della Los Angeles del futuro. La città che prende vita tra le industrie con i loro sbuffi di fuoco e le lontane costruzioni futuristiche. Poi, un’auto volante plana verso uno ziggurat che unisce in sé il tempo: l’antico e il moderno. Il frame che racchiude astronave e ziggurat è anche il simbolo del film, l’all-seeing eye: la ricerca del dio-creatore viene raccontata nel film come metafora di un tentativo di rimediare alla mancanza di un senso profondo nell’esistenza. Una ricerca che si intreccia strettamente con la sensazione del presente, così intensificato dalla brevità della vita di un Replicante che è necessario per lui dotarsi di ricordi, anche finti, per non impazzire.

È proprio il tempo la parola chiave per contestualizzare Blade Runner. Dobbiamo tornare al 1982, quando il film uscì al cinema, in sordina, adombrato dai colossi passati (Star Wars, che abituò il pubblico ad un certo tipo di fantascienza) e futuri: di lì a breve il film di Scott fu sorpassato tragicamente al botteghino da La cosa di Carpenter, Star Trek II – L’ira di Khan di Meyer ed E.T. l’extra-terrestre di Spielberg. Brutto periodo per far uscire un film di fantascienza, ma ottimo periodo per il cyberpunk di cui, a mio modesto parere, Blade Runner fa parte ed è anticipatore.

William Gibson sta scrivendo il suo Neuromante proprio nel 1982 e ricorda benissimo di aver visto il film di Scott e di aver pensato che era tutto lì ciò che stava cercando di creare. Con gli anni Blade Runner diede sostanza anche ad altro. C’è chi lo annovera nel tech noir, genere inventato a partire dal Terminator di Cameron (1984), chi invece ad una istanza postmoderna, cosa che lo rende un fantasma di saggi accademici quali Cyborg Manifesto di Donna Haraway o How We Became Posthuman di Katherine Hayles, ma anche un punto fermo di riflessione per il mondo accademico italiano, nelle opere di Franco “Bifo” Berardi e di Lucia Ferrai (La Soggettività Cyborg). Blade Runner assume col tempo l’aspetto di qualcosa che è più che un film e, come spesso avviene per le opere cult, viene recuperato dopo la sua uscita, col tempo, con la riflessione. Anche nel mondo del cinema è così: specialmente a seguito della Director’s Cut, molti critici cinematografici iniziano a rivalutare il film, che si circonda di una solida aura di purezza all’interno della cultura postmoderna degli anni ’90, come se incarnasse una sorta di spirito del tempo.

Non è soltanto il monologo centrale del film o il rapporto d’amore tra Deckard e Rachel ad aver reso la pellicola un unicum difficile da contestualizzare senza ricorrere a date e a molte parole. Forse sono l’antico e il presente e il loro scontrarsi, che ridonda cristallino all’interno di scene dalla spiccata sensibilità epica. Sensibilità che scivola dal tragico – come l’accecamento del creatore, in una antitesi al mito d’Edipo –, all’eroico – il soldato-Roy che lascia che la sua finta carne si impregni di acqua e lacrime–, al romantico – la sensazione che quell’unicorno, quel piccolo oggetto di carta, così fragile, sia la prova di un mistero più grande che conserviamo dentro di noi. Forse è l’insieme armonioso, e al contempo ostile, dei temi e delle immagini che sono state scelte per rappresentare quel conflitto tra l’uomo presente e l’umanità passata, tra ciò che siamo oggi e chi ci ha creati.

L’incubo che forse il tempo non ci appartenga che siamo noi ad appartenergli.

Blade Runner 6

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