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IN BETWEEN: AMARE E RESISTERE

In Between – Libere, disobbedienti, innamorate: questa la traduzione italiana dell’opera prima di Maysaloun Hamoud, giovanissima promessa del cinema palestinese. E nonostante prove passate che più che pessime definirei imbarazzanti, questa volta la resa italiana non sbaglia e coglie la vertigine amara del titolo in lingua.

L’originale Bar Bahar suona infatti qualcosa come né qui né altrove in israeliano e tra terra e mare in arabo, che per una regia femminile alla prima prova, israeliana ma in lingua araba, più che un titolo è un manifesto, un grido di battaglia.

Né qui né altrove è il luogo deputato delle tre protagoniste e della loro generazione cresciute ai ritmi frenetici di un mondo che cambia e una cultura che resta indietro, in perpetuo controtempo rispetto ad una società che per loro non aveva previsto spazio.

È forse davvero solo una storia sul trovare il proprio posto, quella di Leila, avvocato penalista indomabile e fiera, Salma, DJ e barista a cui la famiglia non perdonerà lo stigma sociale dell’omosessualità, e Noor, studentessa musulmana osservante e fidanzata con l’intransigentissimo Wissam.

Trovare un posto nella convivenza improvvisata e difficile che non avevano previsto, trovare un posto una nell’affetto dell’altra, senza pregiudizi, almeno dentro le mura di casa. Ma soprattutto, ma con più fatica: trovare posto in una società per cui l’accettabilità esiste solo a un passo dall’annullamento.

È in queste condizioni, è in una Tel Aviv psichedelica e spietata, scandita dal vortice incalzante della musica beat, dell’alcool e della droga, che si consuma la ribellione più grande delle donne di Hamoud: esistere. Esistere con arroganza, con una mancanza di compromesso che non troverà redenzione. Esistere o anche solo resistere, quando non si può fare altro, quando l’oppressione comincia dalla propria famiglia o dall’uomo che si credeva di amare. Resistere anche quando la propria definizione non può che avvenire in negativo, per presa di coscienza di ciò che non si vuole essere, di ciò che non si vuole fare.

La storia che Hamoud ha deciso di raccontare è una storia di coraggio, è una storia senza via di scampo. Una di quelle in cui lasciare tutto è l’unico modo per non soccombere e un modo di vincere non c’è.

La storia che Hamoud ha deciso di raccontare è una storia di donne, è una storia che fa paura per quanto è vera per quanto palpita dietro le luci al neon di una Tel Aviv che non sapevo poter essere tanto vicina.

La storia che Hamoud ha deciso di raccontare è -senza mezzi termini- una storia di denuncia. Denuncia di un’emancipazione così pericolosa che fa paura solo a pensarla, di un maschilismo viscerale e imperante, che mastica e sputa, che impone e che urla. Ma direi anche (e forse soprattutto) che la storia di Hamoud  è  la denuncia di una lotta clandestina e silenziosa che si conduce col solo fatto di vivere libere, disobbedienti e innamorate.

Denuncia che ha anche l’enorme pregio di non perdersi in una retorica trita e penalizzata dalla sua stessa rabbia. Il suo linguaggio si nutre della stessa resilienza delle sue protagoniste: senza filtri, arrogantemente spietato, sensibile. Le immagini e le storie non hanno bisogno di didascalie, di scuse, di giustificazioni. Una prima prova di maestria e bellezza rara, in equilibrio fra la politica e l’estetica, la militanza e la narrazione. Parsimoniosa, anche negli eccessi, determinata, anche nella disperazione. Così che l’indignazione non sia mai rancore, che il silenzio possa essere forte ed eloquente quanto e più delle urla tutto intorno.

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