Birdmen

Paolo Villaggio

«La vecchiaia? – sospiro – La vecchiaia è come un tramonto, un crepuscolo. Non brindo, ma mi salva l’ironia, la ferocia: mi salva il cinismo!»

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La scorsa notte, il 3 luglio 2017, moriva Paolo Villaggio. Artista iconico di una Italia riemersa dagli orrori della seconda guerra mondiale, quando la salvezza dal baratro nero di quegli anni giunse per mano della mamma salvatrice a stelle e strisce, e del suo figlio potente e astuto, carceriere severo per una vita di lavoro, debito e disgrazia. La maschera che più di tutte rappresenta questa triste concezione è proprio quella di Fantozzi: il personaggio che ha dato la possibilità di ridefinire l’idea di realismo, su di una chiave grottesca, una comicità leggera seppur gravida del più spietato cinismo. «Mi trovavo sulla nave di Costa Crociere assieme a Fabrizio (De Andrè, ndr,) e fu lì, quando attaccavamo con le note de Il Fannullone e Il Testamento, che cominciai a interpretare Fantozzi; non l’avevo ancora concepito, ma giunse da sè, tanto che lo stesso pubblico mi definiva ‘le petit connard’, ‘il piccolo coglione’, ma detto dolcemente, senza acrimonia». E’ storica infatti l’intima amicizia tra i due artisti genovesi chefin dall’infanzia, vivevano in simbiosi, dominati dagli stessi bisogni, come recita Il Fannullone stesso (canzone scritta da Villaggio e cantata da De André):

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    “Tu vaghi per le strade quasi tutta la notte

    sognando mille favole di gloria e di vendette

    racconti le tue storie a pochi uomini ormai stanchi

    che ridono fissandoti con vuoti sguardi bianchi”

Leggere le parole di Paolo Villaggio infonde sempre molta tristezza. Lui stesso affermava che era riuscito ad avere successo con il danaro e con le donne («poco, seppur con il sorriso») attraverso un personaggio che non ne avrebbe potuto avere. Secondo l’artista, infatti, Fantozzi è la figura allegorica della maggior parte delle persone, un uomo mai sincero, sempre alla ricerca di qualche stratagemma per farsi accettare, senza mai riuscirci. Fantozzi è, sì, un personaggio simpatico, amabile e buono, ma ha anche dei fondamentali difetti: come l’essere invidioso, perché, si sa, l’invidia è il suo sentimento fondamentale.

Villaggio era prima di tutto uno scrittore: per tutto l’arco della sua vita fu lo scrivere a rimanere la costante, pur attraversando un cinquantennio fatto di TV e cinema d’autore (protagonista, assieme a Benigni, ne La voce della Luna – ultimo capolavoro del Maestro Federico Fellini – pellicola fortemente apprezzata da registi come Woody Allen e Martin Scorsese, che si fecero carico di provvedere attraverso investimenti, anche personali, alla diffusione dell’opera nel nuovo continente), in cui ogni maschera e trasfigurazione partivano da quella sontuosa forma d’arte che è lo scrivere satira. Soleva definirsi un buffone (il Maestro Fellini disse di lui e del comico toscano: «Come compagni d’avventura ho scelto Benigni e Villaggio. Due geniali buffoni, due aristocratici attori, unici, inimitabili, che qualunque cinematografia può invidiarci tanto sono estrosi.»), e l’essere comico voleva dire essere cinico, ed essere cinico voleva dire essere infelice:  «In realtà il comico è un perdente sempre, non esistono comici che hanno successo, tutti i grandi comici hanno questa caratteristica: sono ignoranti e hanno la certezza di essere infelici.».

L’aspetto che colpisce di più l’uomo Villaggio è proprio il fatto di ergersi a perdente. Attraverso il lavoro di una vita, su di una impronta assolutamente Kafkiana, ha cercato di elevare con grande dignità la sorte di ogni persona (forse di  tutte le genti) che vive secondo i bisogni di tutti, confinati in un mondo di frustrazione, sotto “amici potenti” ( così Fantozzi chiama i suoi padroni) che comandano e impongono, ricevendo in cambio completo asservimento. E’ un uomo che ha paura, ma che cerca di vivere giustamente, seppur così misera sia la sua esistenza.

In merito a don Abbondio, celebre personaggio de I Promessi Sposi da lui interpretato, disse:

«Don Abbondio è saggio. Non solo. Ha la sapienza contadina, e soprattutto ha quella capacità di fingere di non capire, per evitare i guai. Una capacità tutta italiana. Non ho voluto rendere il personaggio pavido e vigliacco come lo hanno reso al cinema Alberto Sordi e altri. Ho invece puntato tutto sulla sua paura, intesa come ipertrofica coscienza del pericolo, della realtà. Un pauroso per troppa intelligenza, come noi italiani. Siamo tutti don Abbondio

In ciò sta l’essenza di un artista che ha cercato di regalare un po’ di sollievo a chi sente la frustrazione per l’incerto futuro, tremando all’idea che alla fine toccherà ingurgitare merda, soli nella propria tragedia a tratti grotteschi.

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