Attualità

Fantozzi: marxismo (tragicamente) tascabile

È una qualsiasi giornata di novembre, da passarsi chetamente, a lezione di Economia dei Media. Argomento: cinema italiano. A un certo punto la collega a fianco a me, francese proveniente dall’hinterland parigino, mi chiede, timidamente, in un italiano migliore del mio: “Ma cos’è Fantozzi?”.

 

E io non so cosa rispondere. “Che cos’è Fantozzi?”. Chi è Fantozzi? È un film? Una commedia? Una tragedia? Teatro muto? Una versione tascabile di un manuale sul socialismo? Un breviario di citazioni di Marx e Engels se si fossero presi un minimo seriamente? Un carteggio tra socialismo reale e Italia post boom economico e miracolo italiano? Oppure, più semplicemente, la foto di un italiano medio seduto sulla Fontana di Duchamp?

 

Sorrido, tremendamente in difficoltà. Come m’avesse chiesto “cos’è Geordie?” e fossi tentato di risponderle “una canzone di De André”, invece di esporle un trattato di sociologia sul passaggio dalla società tradizionale a quella moderna.

 

Così, allo stesso modo, provo a darle una risposta: “è una commedia che praticamente è un trattato sociologico sull’Italia degli anni ’70, ’80”. Chiudo la bocca, prima che il prof mi riprenda per il mio parlare, e di dovergli spiegare che ho appena descritto la Gioconda come “una dama in un quadro piccolo” (per giunta a una francese).

 

Non era il mio primo passo falso con Fantozzi. Anni prima lo scoprii grazie ai miei nonni: loro ridevano di gusto alla vista di quel ragioniere impacciato, mentre io non capivo cosa ci trovassero di divertente. In seguito, abbastanza grande per vederlo in solitudine su YouTube, non trovavo nessuno con cui condividerlo: per me era un capolavoro, per i miei amici semplicemente vecchio e anacronistico, per giunta italiano, quindi alla meglio noioso o indifferente. Una risposta mi colpì particolarmente, tuttavia; mia madre, infatti, mi rispose: “È l’unico film che non riesco a guardare” (per inciso, con lei ho condiviso la prima stagione di The Lady).

 

Aveva ragione. Ci rifletto, oggi, forse più di ieri.

 

Fantozzi non è guardabile, è un film completamente sbagliato: si ride per ciò per cui si dovrebbe piangere, e si piange per ciò per cui si dovrebbe ridere. E forse così avrei dovuto dire ad Adele, la mia compagna di corso francese. Che, comunque, penso l’abbia capito sin dalla prima scena del primo film (che, appena conclusasi la lezione, le consigliai).

 

Basta, infatti, il primo quarto d’ora per comprendere, davvero, la filosofia fantozziana.

 

“Mi scusi se mi permetto di disturbare” – dice Pina, la moglie del ragioniere, al telefono con la Mega Ditta, “umilmente preoccupata” perché il marito, che si scoprirà murato in un bagno, dopo diciotto giorni non è ancora rincasato dal lavoro.

 

Pochi secondi e Paolo Villaggio ha appena descritto la società italiana.

 

Umile, schiva, provinciale, particolarista, individualista, interessata a dare quanto meno nell’occhio si possa, nella misura in cui ciò rimane il miglior modo per procurare il minor fastidio possibile, all’altro quindi a sé.

 

Il tempo, simmellianamente, è quello del lavoro, che scandisce i diciotto giorni di fantozziana prigionia, le pratiche sulla di lui scrivania e l’umile preoccupazione della moglie (ma anche ogni altra relazione sociale del ragioniere: dallo scapoli contro ammogliati, al capodanno “accorciato” del maestro Canello, fino alle avventure sulla neve).

 

L’uomo è alienato, in senso marxiano. Ovvero, è alienato tanto quanto il concetto stesso di alienazione, che Marx rifiuterà, dopo averlo magistralmente esposto in gioventù, liquidandolo dopo aver scritto il Capitale, pur essendo quella una (la?) tematica dove più difficilmente gli si potrebbe muovere accusa.

 

Villaggio documenta. Non esiste sfera del privato (o, meglio, “del privato del privato”, come la chiamerebbe Carmelo Bene): nessun momento di debolezza, ancorché umana, è ammesso, in quanto la sfera pubblica (della Mega Ditta) non perdona. Nessuna distrazione è possibile nella realtà (della fabbrica): appena Fantozzi si lascia andare a una minzione (o a una vittoria a biliardo), immediati e certi saranno i giorni di prigionia (o l’obbligo di fuga al grido “prendo la vecchia”).

 

La tregua dalla realtà non è conseguibile, né in pubblico, né in privato, dove la preoccupazione è umile, l’amore è tuttalpiù stima, e la fatica di baciar la propria figlia pressante. La famiglia assolve al proprio compito o quando collabora, aiutando e motivando chi deve lavorare (Fantozzi prende l’autobus al volo non tanto perché è in ritardo, ma perché “non l’ha mai fatto, anche se ha sempre sognato di farlo”); oppure quando, rincasato il capo famiglia, questa lo lascia alle sue vere gioie e affetti, alle partite della Nazionale azzurra e al “rutto libero“.

 

La sovrastruttura ideologica rimane totalmente in funzione della struttura economica. Così che la prima è il problema, e non la seconda, con la conseguenza che l’unica risposta possibile è l’adattamento darwiniano, tradotto nella nobile e italiana arte dell’arrangiarsi: mettere la sveglia alle 7:51 invece che alle 6, sapendo coniugare caffè-latte e pettinata, ponendoli sullo stesso piano per priorità e godimento.

 

Ogni rivendicazione e lamentela è possibile, purché non si ledano tradizione, buon senso (precedentemente istituzionalizzato) e status quo: il ragioniere, all’ennesima testata, umanamente, può dare della “vecchia, stronza e puttana” alla Statua della madre, fintanto che questo sia disposto a rimangiarselo non appena venga sentito.

 

La rivoluzione (fattibile, per altro, in forma prettamente fantozziana) è possibile solo se non turba l’altro, se non sorgono dubbi su che vestito mettersi.

 

Così, nell’ultima scena, nel dialogo, quasi platonico, tra Fantozzi e il Megadirettore Galattico, dopo che il primo ha tirato un sasso contro la Mega Ditta, dopo aver capito d’esser stato “sempre preso per il culo“, emerge la morale (della narrazione, dell’Italia):

 

– Ma abbia pazienza. Ma come che differenza c’è? Non mi vorrà mica dire, signor duca, che siamo uguali io e lei. Voi siete i padroni, gli sfruttatori. Noi invece siamo gli schiavi, i morti di fame!
– Oh, ma caro Fantozzi, è solo questione di intendersi, di terminologia. Lei dice “padroni” e io “datori di lavoro”, lei dice “sfruttatori” e io dico “benestanti”; lei dice” morti di fame” e io “classe meno abbiente”. Ma per il resto la penso esattamente come lei.
– Come, altezza, come?
– Io come lei sono un uomo illuminato e sono convint, like Gecko) Chrome/46.0.2486.0te ingiustizie da sanare. La penso esattamente come lei.
– Ma, mi scusi, sire, ma, non mi vorrà dire che lei è, scusi il termine, comunista?
– Beh, proprio comunista no. Vede io sono un medio-progressista.
– Ah, ma in merito a tutte queste rivendicazioni e a tutte le ingiustizie che ci sono, lei cosa consiglierebbe di fare, maestà?
– Ecco. Bisognerebbe che, per ogni problema nuovo, tutti gli uomini di buona volontà, come me, e come lei, caro Fantozzi, cominciassero a incontrarsi senza violenze in una serie di civili e democratiche riunioni, fino a che non saremo tutti quanti d’accordo.
– Ma, mi scusi santità: ma in questo modo ci vorranno almeno mille anni.
– Posso aspettare, io.
– Grazie. Così, allora, le mancherebbe solo la poltrona in pelle umana?
– …
– c’è?!

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