Letteratura

Incontro con il poeta Massimo Gezzi

Pochi giorni fa, a Lugano, ho avuto la fortuna di poter incontrare Massimo Gezzi, grande poeta professore di origini marchigiane, formatosi tra Bologna e Pavia e attualmente residente nel Canton Ticino, e di potergli chiedere di raccontarmi di sé.

Nasce nel 1976 a Sant’Elpidio a Mare, nelle Marche. Laureato a Bologna, si sposta a Pavia per il dottorato.

Il periodo che ho trascorso a Pavia è stato uno dei più felici della mia vita. Mi ricordo di una comunità di persone di grande intelligenza e piacevolezza, ho stretto amicizie molto forti che ancora oggi conservo.”

In seguito passa sei anni a Berna, in Svizzera, come assistente in università. Dopo questo periodo di tempo arriva nel Canton Ticino, dove tutt’ora è professore di italiano al Liceo di Lugano 1.

A Berna mi trovavo bene, ma studiavo in solitaria. A un certo punto ho iniziato a sentire la necessità di mettere in comune ciò che stavo facendo. Diventando professore sono passato da un ambiente protetto e selettivo, come può essere quello universitario, a un luogo in cui puoi trovare fondamentalmente chiunque, il liceo, dove devi dire al ragazzo, a cui non importa nulla, che leggere è importante. Devi crederci tu per primo per poterlo trasmettere.“

Per questa motivazione Gezzi, quando gli chiedo quali siano secondo lui i requisiti fondamentali per essere un buon insegnante, mi risponde: “entusiasmo e passione”.

Senza questo un insegnante non funziona. Oltre a un necessario equilibrio tra confidenza e fermezza nei rapporti con una classe, è fondamentale credere davvero nel fatto che leggere, stare a contatto con i libri e con gli autori, possa cambiare la vita ai ragazzi, che sia un incontro essenziale anche per chi non sceglierà questa strada in futuro.”

Gezzi racconta che si è formato prima come lettore che come studioso, come amante di Montale e di “quella strana cosa che si può forse chiamare classicismo moderno” di Sereni, Raboni, Fortini.

Questi sono stati i miei punti di partenza. Ma fondamentali per me sono stati anche moltissimi altri. Nell’ultimo decennio ho molto apprezzato i poeti americani. Da loro ho imparato una certa disinvoltura nel dire, cosa che forse manca ai poeti italiani per via di una tradizione così incombente.”

Oltre ad aver curato varie opere, tra cui l’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72 di Eugenio Montale, ha pubblicato i libri di poesia Il mare a destra, L’attimo dopo (Premi Metauro e Marazza Giovani), Il numero dei vivi (Premio Carducci, Premio Tirinnanzi e Premio svizzero di letteratura 2016) e Uno di nessuno. Storia di Giovanni Antonelli, poeta.

Ho provato in varie occasioni a scrivere in prosa ma non sono capace, mi annoia, ogni volta sono arrivato solo a pagina 10-12, è qui che mi fermo sempre. E mi fermo perché a un certo punto mi pare di poter dire tutto con meno parole. La condensazione della poesia, invece, è una cosa che mi stupisce ogni volta. La capacità di dire tutto con un’incredibile economia espressiva, di comprimere in poche righe senso, significato, musica e suono, è uno dei miracoli della poesia.”

L’ultimo libro di Gezzi, uscito solo pochi mesi fa, racconta in versi la storia di Giovanni Antonelli, una figura storicamente esistita, originaria dello stesso paese dell’autore, ma dimenticata dai più. Un poeta, un vagabondo, un anarchico, un anticlericale, un uomo considerato pazzo e internato in vari manicomi e carceri in tutta Italia, la cui vita “ha chiesto prepotentemente di essere raccontata”.

Ho incontrato la figura di Giovanni Antonelli per puro caso: leggendo una sorta di elenco di personaggi ‘celebri’ del mio paese mi sono imbattuto nel suo nome. Mi sono chiesto come fosse possibile che in venticinque anni vissuti in quella città non ne avessi mai sentito parlare. Allora ho ricercato fonti di archivio, le sue poesie e la sua autobiografia,Il libro di un pazzo”, da poco ripubblicata, per ridare un capo e una coda alla sua storia. Ho voluto in un certo modo tirare fuori dall’ombra un individuo che ha vissuto una vita da escluso e il cui stesso ricordo è stato estromesso dalla memoria collettiva: una sorta di allegoria di tutti gli esclusi”.

Gezzi ha scelto di raccontare la storia di un uomo vissuto nell’Ottocento solo apparentemente lontano da sé.

Una poesia che non getti radici nel mondo dell’oggi non avrebbe senso. Attraverso i meccanismi allegorici della letteratura, anche parlando di ciò che successe molto tempo fa possiamo parlare dell’oggi. Io spero di scrivere una poesia fortemente legata al quotidiano, ma al contempo anche all’ “oltretempo” (come diceva Montale). Riuscendo a fare questo si è già a metà dell’opera, o forse a tre quarti.”

Lui stesso si lega in modo “epidermico” al suo personaggio. Vi sono delle somiglianze, anche curiose. Antonelli, vagabondo, inquieto, ha girato per tutta la vita e da Sant’Elpidio è arrivato anche nel Canton Ticino, come l’autore.

Non posso dire di rispecchiarmi interamente in lui, perché sul piano biografico non ho fatto la sua vita: io ora abito in un paese che mi ha accolto e mi ha dato un lavoro, lui invece è stato un escluso integrale e ha pagato con la vita la sua esclusione. Ma tutti e due siamo stati incapaci di vivere in un contesto, in quel contesto, Sant’Elpidio a Mare, la mia città. Per cui sì, c’è sicuramente anche la mia voce nascosta dietro a quella di Antonelli (la fine del libro, per esempio, è più mia che sua: forse lui non avrebbe detto voi tutti siete me), ma c’è soprattutto la sua, perché la parte poetica del libro accoglie davvero parole sue, rielaborate e messe in versi. Io ho cercato anche una distanza rispetto alla cronaca e alla mia storia. La parola Santelpidio nel libro non a caso è scritta senza apostrofo: è lui che la scrive così, mentre oggi sarebbe Sant’Elpidio. La Santelpidio di Antonelli allora è certamente la mia città, però allo stesso tempo non lo è: è come se fosse una cittadina immaginaria, in qualche modo, come la Cortesforza di Giorgio Falco, per citare uno scrittore che stimo”.

Ma come è possibile essere poeti oggi, nel 2016? È una domanda che tocca nel vivo Gezzi e le sue riflessioni sul ruolo e sull’incisività della poesia nella nostra società.

Mi chiedo spesso a cosa serva scrivere poesia. Molte volte ho pensato di smettere di scrivere perché non sapevo rispondere. Da un lato la poesia è un istinto e una necessità, per me; dall’altro mi rendo conto che oggi non serve assolutamente a niente, perché non viene letta se non da un’infima minoranza di persone. L’unico ambiente in cui viene protetta, ma come se fosse un animale in via di estinzione, è la scuola. La poesia oggi non ha più incidenza. Io non sento un pubblico, o meglio, un popolo che sia capace di accogliere e ricevere la poesia. Tuttavia mi sono spesso ridetto alcuni celebri versi di Fortini: La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”, e quindi scrivo, scrivo perché devo farlo, perché fondamentalmente la poesia mi ha salvato la vita. Incontrare gli Ossi di seppia di Montale alle superiori è stato per me salvifico; la poesia lo è stata, a differenza della religione o di qualsiasi altro fenomeno culturale o sociale umano. Certo, è sempre più faticoso, ma io scrivo perché devo, non sarei me stesso se non lo facessi, e tutto sommato ci credo ancora.”

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