Attualità

Intervista a Grazia Trotti, presidente della associazione “Vigevano Libera”

di Matteo Miglietta

 

Inchiostro – Secondo l’elenco stilato dal Ministero dell’Interno, in Lombardia sono presenti solo due associazioni antiusura e antiracket: la vostra “Vigevano Libera” e “SOS Italia Libera”, di Como. In Puglia ce ne sono 22, mentre in Sicilia 45, questo cosa significa? È davvero così poco necessaria la lotta all’usura nella nostra regione?
Grazia Trotti – Il problema è che al nord siamo più ignoranti, nel senso che un po’ ignoriamo il problema, un po’ ce lo fanno ignorare. Così facendo non abbiamo attivato gli anticorpi necessari per combattere questi fenomeni. In Lombardia si è sempre ritenuto non fosse necessario. Secondo molti qui il fenomeno non esiste, ma non è così e si sa almeno dall’inchiesta “Duomo Connection” (prima importante inchiesta al nord sui rapporti mafia-politica-imprenditoria, nata a fine anni ’80, che a Milano portò alle dimissioni della giunta Pillitteri, il quale rispose alle opposizioni con la famosa frase «a Milano la mafia non esiste», ndr), quindi molti anni fa. Siamo una delle più ricche economie d’Italia e la malavita ne è attratta, nonostante questo per molto tempo abbiamo fatto gli struzzi. Io dal 2001, anno di fondazione della mia associazione, ho continuato a lanciare segnali di preoccupazione ma non sono mai stata ascoltata e a volte sono stata accusata di provocare inutili allarmismi. La mafia delle coppole e le pistole non esiste più: ora è una mafia imprenditrice. Nel rapporto nazionale che ogni anno pubblichiamo noi di “Sos Impresa” la definiamo “azienda mafia”, perché di questo si tratta: fattura miliardi!

Sempre secondo i dati del Ministero dell’Interno, ci sono 98 iscritti alla vostra associazione. Queste persone come arrivano a voi?
Devo precisare che in realtà non abbiamo veri e propri soci esterni che pagano una quota, escluso don Ciotti che ha voluto la tessera numero 1. Abbiamo però deciso di considerare iscritti quelli che si rivolgono a noi. Riguardo le modalità attraverso le quali avviene il contatto, è fondamentale il numero telefonico esposto fuori dalla nostra sede di Vigevano, oppure il nostro indirizzo e-mail vigevanolibera@gmail.com. Con alcune persone il rapporto rimane però solo telefonico perché preferiscono non farsi identificare. I casi che trattiamo comunque non sono solo della nostra provincia: essendoci solo due associazioni in tutta la regione, è evidente che si rivolgono a noi da tutta la Lombardia, e non solo. Ad esempio a me è capitato di trattare casi anche in Emilia Romagna, Puglia…

Quali sono i rapporti fra le associazioni mafiose e il racket vero e proprio? In Lombardia e a Pavia si paga davvero il pizzo?
Il pizzo praticamente non si paga più, ma non solo qui, quasi ovunque. Ora ci sono mezzi più subdoli e anche difficili da identificare. Spesso il metodo è l’usura, quindi il prestito di denaro a piccole aziende o imprenditori che, soprattutto in periodi di difficoltà economica come questo, nel momento in cui vedono presentarsi da loro qualcuno che offre il suo aiuto, si trovano costretti a cedere alla tentazione. Poi dopo poco scoprono che la loro azienda ormai è di qualcun altro.
Ma esistono anche altri modi per pagare il pizzo, ad esempio comprando il pane da un determinato fornitore a un prezzo maggiorato, oppure assumendo qualcuno a cui si deve pagare lo stipendio nonostante questo non si presenti mai a lavoro. Situazioni del genere permettono alle associazioni mafiose di riciclare il denaro ottenuto con i loro fatti illeciti.
In provincia di Pavia ci sono stati casi di pizzo, ma devo ammette che negli ultimi anni non se n’è più sentito parlare.

Noi cittadini comuni, spesso estranei al mondo della criminalità organizzata, non ci rendiamo conto di molte situazioni che ci circondano, mentre chi, come voi, vive tutti i giorni a contatto con il malaffare, ha una visione più lucida e completa degli avvenimenti. Secondo lei l’inchiesta di luglio ha semplicemente “scoperto l’acqua calda” oppure ha portato allo scoperto un sottobosco melmoso di cui nessuno di era reso conto finora?
A questa domanda non posso rispondere. Consiglio però a tutti di andarsi a leggere il rapporto dell’anno scorso di “Sos Impresa”. Lì si troveranno molte risposte. Oppure di dare un’occhiata all’ordinanza di custodia cautelare per la famiglia Valle (coinvolta nell’inchiesta di luglio. Fra le altre cose si legge “Francesco Valle detto don Ciccio, risulta essere il capo del clan Valle. A seguito della sanguinaria faida con la cosca Geria-Rodà, Francesco Valle agli inizi degli anni Ottanta è costretto a trasferirsi da Reggio Calabria a Vigevano”. A suo carico “figurano precedenti o pregiudizi penali per associazione mafiosa”. Quadro confermato da una perquisizione domiciliare effettuata dalla polizia di Pavia già nel 1984, ndr). Quando io sono stata ascoltata dalla commissione antimafia del comune di Pavia, mi sono presentata con le fotocopie degli articoli che in questi anni sono stati pubblicati sui giornali, senza essere regolarmente ascoltati. Molte cose erano evidenti da tempo.

Quale consiglio può dare a noi studenti? C’è qualcosa di concreto che possiamo fare?
Il consiglio è non abbassare mai la guardia e prendere coscienza che il problema riguarda tutti. Una volta riconosciuto il problema, allora lo si può combattere, altrimenti come si può fronteggiare qualcosa che non esiste? Poi vanno attivati tutti gli anticorpi necessari, come leggi anche regionali più precise sull’assunzione dei funzionari pubblici e degli amministratori. Per esempio Carlo Chiriaco (vedere articoli precedenti, ndr) non aveva un curriculum esattamente immacolato al momento della sua nomina a direttore sanitario, si sapeva dei suoi precedenti guai con la giustizia. Poi vanno controllati gli appalti e i patrimoni, perché queste persone ne hanno di immensi. Devono essere tenuti sott’occhio, ad esempio, le persone che acquistano una macchina di grossa cilindrata, o fanno costruzioni megagalattiche. Infine tutti dobbiamo avere la coscienza civica dei cittadini che non guardano solo al loro orticello, perché altrimenti un giorno arriverà qualcuno che ci dirà che quell’orticello non è più nostro.

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