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Il Rojava, l’esperimento statale dei Curdi siriani

Foto di Bulent Kilic

Il popolo etnicamente curdo è stato ripartito all’interno di Stati artificiali, costruiti sulla base degli interessi delle grandi potenze europee alla fine della Prima Guerra mondiale. In Turchia, come in Iraq come in Siria, la loro presenza è stata osteggiata, spesso cancellata. In Siria, la situazione completamente paradossale dello Stato ha dato la possibilità di creare un’enclave statale indipendente curda siriana. Alcuni accolgono questo esperimento come l’unico risvolto positivo dello scombussolamento regionale, altri invece vorrebbero che non venisse pubblicizzato, dal momento che potrebbe portare ad un’ulteriore destabilizzazione.

Il Curdistan siriano si sviluppa lungo il confine tra Siria e Turchia intorno alle principali città di Erfin, Kobane e Qamishli. La popolazione appartiene al gruppo di lingua Kurmanji, la religione predominante è quella musulmana sunnita, tranne qualche minoranza Yezidi nelle vicinanze del confine con l’Iraq. Come nel caso dei loro vicini turchi e iracheni, i curdi non sono un gruppo compatto né tanto meno omogeneo. La struttura della società curda siriana, come in Turchia e Iraq, già ai tempi dell’Impero Ottomano girava intorno alle lealtà tribali e familiari e le identità erano radicate negli interessi sociali e politici più che in quelli storici nazionali. Sotto questo aspetto, però, bisogna ricordare che una parte delle tribù curde era nomade e l’Impero Ottomano per amministrarle meglio le aveva obbligate a sedentarizzarsi. Una parte era stata fermata nella zona di Diyarbakir per poi essere spostata nel uilayet, provincia, di Raqqa. Alcune famiglie si insediarono a Damasco, e con il tempo divennero un’élite cittadina, che però non abbandonò mai il proprio carattere curdo in favore di quello arabo, predominante nell’aristocrazia.

Al momento del tracollo dell’Impero Ottomano, con il passaggio all’amministrazione francese la situazione sociale, ma soprattutto politica, si fece molto frammentata e ambigua. La Francia interpretò il proprio mandato come modo per difendere le minoranze cristiane, druse e alauite contro la maggioranza sunnita. Il divide et impera francese si giocava sulla contrapposizione tra le élites cittadine e quelle rurali, gli interessi delle minoranze contro quelli della maggioranza araba. I gruppi non musulmani, ma comunque arabi, ottennero infatti dei grossi vantaggi nella divisone amministrativa della Siria, ma questo atteggiamento non fece che raccogliere le identità arabo musulmane intorno all’idea di nazione.

La complessità della situazione divenne evidente al momento dell’indipendenza nel 1946. Quando finalmente la Francia si ritirò dalla Siria, gli arabi musulmani si appropriarono dello Stato. Non è mai esistita una vera dialettica democratico-repubblicana, si alternarono da subito le dittature militari, tra i quali ci furono anche due capi di Stato curdi. L’idea nazionale siriana però non venne mai meno. Si esprimeva nei termini del panarabismo e in questo senso il principale ostacolo alla realizzazione del sogno nazionale siriano erano i Curdi. Una forma di discriminazione esisteva già, ma quando nel 1962, una volta terminato il tentativo panarabo della Repubblica Araba Unita, il nuovo Stato venne chiamato Repubblica Araba di Siria, ogni dubbio fu sciolto. I Curdi minavano alla base la fragile legittimità dello Stato, per questo dovevano essere cancellati.

Nello stesso 1962, venne fatto un censimento volto a determinare chi avesse il diritto alla nazionalità siriana e chi invece era entrato illegalmente dopo il 1945. Tuttavia, la complessità amministrativa dell’Impero ottomano prima e del mandato francese poi, rendevano spesso impossibile la produzione dei documenti che attestassero l’effettiva residenza. Migliaia di Curdi si videro quindi rifiutare la nazionalità siriana e divennero in qualche modo apolidi.

La loro situazione era in realtà più complessa che solo apolidi. Tutti quelli che non rientravano nei criteri indetti dal censimento vennero dichiarai ajanib, stranieri. Mentre coloro che non avevano partecipato erano maktumin, non-registrati, nascosti. Non potevano ottenere un passaporto, potevano andare a scuola ma non essere impiegati nel settore pubblico, ma nemmeno in quello privato soprattutto per svolgere l’attività di medico, avvocato o ingegnere. Il matrimonio tra ajanib e donne siriane era vietato. I maktumin non avevano nessun diritto, civile, politico, legale, e nessuna opportunità di alcun tipo all’interno dei confini siriani. Inoltre, lo status di ajanib o maktumin si trasmetteva ai figli, per cui di fatto, nel tempo il numero di curdi non riconosciuti aumentò.

Dopo il colpo di Stato di Hafiz al-Aassad nel 1970, la riforma amministrativa dello Stato rese l’ottenimento dei documenti o di un riconoscimento ancora più complesso. Non solo, ma venne applicata alle regioni settentrionali una politica di arabizzazione forzata. Il Partito Ba’ath aveva disegnato negli anni precedenti un progetto politico chiamato “Cintura Araba” da applicarsi nella regione di al-Jazira, ovvero la creazione di un cordone militare sul confine tra Siria, Turchia e Iraq. Le famiglie che abitavano lungo il confine dovevano essere ri-localizzate nelle regioni arabe. Le altre due regioni, quelle intorno alle città di Kobane ed Erfin furono oggetto di una politica di redistribuzione terriera, che mirava ad espropriare le famiglie curde per consegnare le loro proprietà ai contadini arabi. Ai curdi non era permesso l’acquisto di altri fondi, per cui avevano come unica alternativa l’emigrazione, sia dalla Siria sia verso le città. .

Dal punto di vista culturale e politico le cose none erano migliori. Ogni città curde e regione curda fu rinominata in arabo; la lingua curda era vietata e non erano accettati i nomi curdi per i neonati. Ogni attività culturale in lingua Kurmanji era considerata illegale, anche se le altre minoranze come gli Assiri, gli Armeni e gli Ebrei potevano parlare la propria lingua senza problemi. Le feste religiose dei curdi, come il nuovo anno, il Newroz, doveva essere approvato dallo Stato con un permesso speciale che spesso non era garantito. I matrimoni potevano essere celebrati solo se si garantiva che nessuna canzone o poesia venisse fatta in Kurmanji. Nel 1986, la lingua curda venne vietata anche negli uffici pubblici, sui luoghi di lavoro, nei cinema e nei caffè.

Nel 1957, a fronte della crescente retorica araba siriana, i Curdi avevano creato un proprio partito il Partito Democratico Curdo di Siria, KDPS, con l’idea di creare un movimento sociale di massa. Il Partito era fortemente influenzato da Jalal Talabani, membro del KDP e poi leader del PUK i partiti curdi dell’Iraq. Ma non ebbe un’attività molto importante. Quando nel 2000, Hafiz al-Assad morì e il regime passò al figlio Bashar, il KDPS approfittò della transizione e del clima di riconciliazione messo in atto da al-Assad jr. Nei primi anni del nuovo governo, sembrò esserci una riconciliazione con le opposizioni, ma fu una breve illusione. I partiti di opposizione, in particolare quello curdo che avevano denunciato le violazioni dei diritti furono repressi e i leaders arrestati. Nel 2001, le manifestazioni furono vietate, i forum chiusi e gli attivisti arrestati.

Gli anni tra il 2003 e il 2004 segnarono una svolta. Nel 2003, le forze americane invasero l’Iraq, destabilizzandolo completamente diedero la possibilità ai Curdi iracheni di essere riconosciuti come un gruppo nazionale distinto; fatto che accese il fervore curdo siriano ormai represso da parecchi decenni. Nel 2004, in occasione di una manifestazione calcistica a Qamishli furono uccisi sette atleti, la popolazione insorse contro il regime, contro il Partito Ba’ath, contro lo stesso al-Assad. La protesta si diffuse a Kobane, Damasco, Aleppo e nelle altre città siriane. Il regime fece intervenire l’esercito per reprimere le proteste in particolare nel nord e nella città di Qamishli cuore del movimento. Gli effetti della repressione furono tanto più devastanti dal momento che, l’arretratezza nella quale era stata forzata la regione curda, impediva di avere le strutture adeguate per curare i feriti delle manifestazioni. Inoltre alcuni sostengono che agli arrestati veniva negato ogni diritto all’equo processo e nelle prigioni spesso si ricorreva alla tortura.

Per ragioni di contrapposizione regionale, durante il regime, al-Assad sr. permise al PKK di creare degli uffici politici a Damasco e nelle principali città curde siriane; salvo poi tornare sui suoi passi per mantenere dei buoni rapporti con la Turchia soprattutto in merito allo sfruttamento delle risorse idriche, ma questa è un’altra storia. Il fatto che il PKK avesse libero accesso alla regione siriana settentrionale permise la diffusione delle idee del leader del Partito Abdullah Öcalan (anche se non riconobbe mai la legittimità dei curdi siriani a richiedere l’autonomia piuttosto voleva che essi entrassero nel movimento curdo di Turchia).

Il fatto che i curdi non abbiano avuto un’attività politica martellante negli anni, gli ha permesso di avere un enorme vantaggio nel 2011. Nel momento dello scoppio della guerra civile siriana, con la divisione, dapprima netta e poi sempre più complicata, tra il governo e le forze ribelli di opposizione, i Curdi della regione settentrionale si dichiararono neutrali. Contemporaneamente, davanti alla destabilizzazione di tutte le strutture statali, si dichiararono indipendenti dando vita al governo regionale del Rojava. La situazione con il regime era tesa ma non sfociò mai in un scontro aperto e alla fine il regime decise di ritirarsi . In quel periodo arrivava infatti lo Stato Islamico (cosiddetto) a cambiare le carte in tavola. L’ISIS ha da subito imposto il proprio dominio nella regione curda, trovando l’opposizione dell’esercito curdo siriano. Questo in realtà non è altro che un ramo del YPG, braccio armato del PKK, composto esclusivamente da soldati curdi siriani senza distinzione tra uomini e donne.

I soldati hanno combattuto per circa due anni, dal 2012 al 2014, fianco a fianco con il YPG/YPJ curdo turco, liberando progressivamente tutta la zona settentrionale che oggi costituisce il Rojava, termine curdo che significa “ovest”, indica quindi il Curdistan occidentale. Con la liberazione delle città, come Kobane e le regioni circostanti, le famiglie curde hanno potuto abbandonare i campi dei rifugiati e tornare in alcune abitazioni.

Dal 2014, il Democratic Union Party, PYD, è al governo nel Rojava, legittimato da una costituzione che ha redatto basandosi sul pensiero politico elaborato da Öcalan durante i suoi anni di prigionia in Turchia. Secondo questa linea, i gruppi mediorientali avrebbero diritto all’autodeterminazione sotto l’egida di un governo autonomo e decentralizzato, che rimanga però all’interno dei confini nazionali già tracciati. Lo Stato si baserebbe quindi sull’elevato grado di partecipazione politica popolare, ma con una forte tendenza verso la decentralizzazione amministrativa. Nel Rojava inoltre, i membri del governo sono effettivamente rappresentativi delle comunità, i ministri sono stati scelti in modo da avere almeno un membro curdo, uno arabo e uno assiro, tra questi almeno uno deve essere una donna. La caratteristica che infatti spiazza, rispetto alla storia regionale, è che il Rojava prevede la piena parità dei sessi.

Human Rights Watch, che ha avuto la possibilità di valutare l’operato del governo in Rojava, ha sollevato alcuni dubbi in merito al suo apparato legale. Nel suo rapporto del giugno 2014, son messi in evidenza degli arresti senza un giusto processo, in particolare gli attivisti politici contrari al PYD.

Tutte le informazioni a disposizione sono recenti e frutto di indagini di persone che vi si sono recate. Tra questi è molto interessante l’articolo di Wes Enzinna per il New York Times Magazine nel quale racconta la propria esperienza come professore di giornalismo all’università indipendente curda siriana di Qamishli, l’Accademia Mesopotamica delle Scienze Sociali.

Il sistema del Rojava si finanzia grazie all’agricoltura (il Curdistan siriano è stato infatti sempre particolarmente fertile) ma soprattutto grazie alla vendita del petrolio. Sì, come negli altri Curdistan, anche il Rojava detiene al suo interno la maggior parte delle risorse petrolifere del paese. Il greggio viene venduto al regime per finanziare la guerra condivisa contro lo Stato Islamico (cosiddetto). Proprio con il regime, che chiaramente non ne riconosce lo stato indipendente, esiste una sorta di tregua. A Qamishli nelle caserme sono confinati alcuni reggimenti dell’esercito dei fedeli al regime, ma finché essi non attaccano i curdi, i curdi non li attaccheranno.

La Turchia, invece, è particolarmente insoddisfatta dell’evoluzione degli eventi recenti. Un’indipendenza curda siriana che si aggiunge al KRG iracheno, crea un elevato potenziale di destabilizzazione peri propri confini. Perciò, Ankara rifiuta di riconoscere il carattere indipendente del Rojava ed è sempre meno propenso ad appoggiare gli Stati Uniti nella strategia di finanziamento dei curdi come antidoto all’ISIS.

Che ne sarà del Rojava? Purtroppo è ancora troppo presto per dirlo. La sua presenza, indipendenza, autonomia, riconosciuta o meno disillude coloro che sperano un giorno riavere la Siria come l’hanno finora conosciuta.

L’attore regionale messo più in pericolo dalla creazione della Rojava è chiaramente la Turchia. Il radicamento del PKK, nella questione settentrionale siriana potrebbe ripercuotersi con delle rivendicazioni più forti e temibili da parte curda. Davanti ad una tale prospettiva, l’esercito turco avrebbe cominciato a bombardare le postazioni siriane del YPG curdo siriano, per indebolirlo e forse permetterne la riconquista da parte delle forze del regime o dell’ISIS. Se questo fosse vero, o dovesse continuare, la reazione del PKK turco non tarderebbe a farsi sentire sia in relazione alla Siria, che in relazione alla politica interna. I recenti attentati suicidi avvenuti ad Ankara sembrano andare proprio in questa direzione.

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